Voce all’Artista – Interviste

Microfono 

Maria Lacchio a Marzo 2017 ci parla di FILIPPO MINACAPILLI

In occasione della Rassegna “Dialoghi di Primavera 2017 organizzata dal comune di Santhià, l’Associazione Culturale “La Voce” , dedica la rubrica “Voce all’Artista” al poeta siciliano Filippo Minacapilli. È con grande piacere che ripropongo questo Artista che ebbi l’onore di intervistare quando pubblicò il suo primo libro di poesie “Magie di luce in versi” (Edizioni Divinafollia 2013): Recentemente ha pubblicato la seconda raccolta di poesie “Riflessi d’acqua” (Edizioni Bertonieditore 2016).

Nato ad Aidone-Morgantina in provincia di Enna, Filippo Minacapilli è stato docente di Scienze Umane in diversi Istituti Superiori. Fa parte di Associazioni Culturali e collabora con giornali on-line occupandosi di temi sociali e culturali. È Giudice Onorario presso il Tribunale dei Minorenni di Caltanisetta.

Sebbene sia una persona timida e riservata, possiede una personalità solare e spontanea che trasmette in maniera coinvolgente la sua passione per la poesia che scaturisce dal suo intimo, svelando emozioni, desideri e sogni che appartengono a tutti noi.

Nel 2013 con l’aforisma Sognare è andare oltre i confini che ci separano dagli dei  è stato tra i vincitori del concorso Premio Internazionale “Tre Gocce d’Inchiostro” promosso dall’Associazione Italiana per l’Aforisma.

Finalista con la poesia “Tramonto Imerese” , al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti edizione 2015.

Tema dominante delle sue poesie raccolte nella silloge “Riflessi d’Acqua” è l’amore che domina l’universo umano, la natura, la società in tutte le sue sfaccettature. Amore come sogno, come catarsi, amore sensuale, amore spirituale.

“Riflessi d’Acqua” presenta tre diverse soluzioni poetiche: poesia, aforismi e haiku.

Riporto qui di seguito l’ottima recensione di Maura Campo.

Maura Campo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“ Le parole di Filippo Minacapilli sono come veri e propri riflessi sull’acqua: seguono un leggero moto ondoso, si scompongono e si ricompongono, instancabili esprimono sensazioni e immagini che ritornano limpide e senza increspature.

Emozioni e sentimenti hanno, in questa raccolta, un ruolo privilegiato, senza tuttavia togliere spazio a considerazioni meno intimistiche di vocazione politico sociale.

L’opera è divisa in tre parti, per le quali l’autore ha scelto tre diverse forme espressive: la poesia, gli haiku (brevi componimenti poetici giapponesi, utilizzati soprattutto per celebrare la natura) e gli aforismi (di interesse filosofico -pedagogico).

In copertina un uccello si specchia sull’acqua confondendo la vista dell’osservatore, in un gioco di specchi che celebra il vero e l’illusorio ala tempo stesso, categorie ossimori che alle quali appartengono le parole: “reali e invisibili”, forti eppure inafferrabili. Parole che come “perle” sanno nascere anche dalla “malattia”, dal dolore dell’abbandono.

I componimenti ruotano soprattutto intorno ai temi dell’amore (urlato, sussurrato, desiderato, perduto …) e della natura.

La natura maestra, alla quale l’autore capace di sentirne le urla silenziose, presta i suoi versi. L’Amore inesauribile fonte di ispirazione, che suggerisce le parole anche quando sembra sottrarle. Paradosso, quest’ultimo, bel espresso in “Poesia senza versi”:

[ … ] Non serve il mio canto

se tu non vuoi

più ascoltarlo.

Ho perso i versi.

Equilibristi accompagnano il lettore in un viaggio sensoriale, avvolto da atmosfere oniriche e sin estetiche. La figura circense riappare di tanto in tanto fra le pagine, per ricordarci che la vita è un bellissimo gioco fatto di fragili e preziosi equilibri nel quale “avanziamo come funamboli sul filo del sogno. Pronti a cadere.”

Il libro può essere apprezzato in ogni sua parte (ognuna vive e brilla di luce propria) ma chi lo legge seguendo l’ordine che va dall’inizio alla fine, potrà coglierne la fluidità dialettica Il filo conduttore di questo cammino non potrà allora trovare ancora una volta nell’acqua, la metafora più calzante e feconda.”

Maura Campo

Maria Lacchio

 

 

Maria Lacchio a Giugno 2016 incontra

UMBERTO NAPOLITANO

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Un grande personaggio che la musica l’ha scritta e l’ha fatta, Umberto Napolitano, autore e interprete di canzoni di successo, con alle spalle una carriera chilometrica.

Il suo debutto avvenne al “Nebbia Club” di Franco Nebbia a metà degli anni ’60. Nel 1964 incise il primo 45 giri “Vedette” scritta da Gian Pieretti. Il successo arrivò nel 1966 con “Chitarre contro la guerra”, una canzone di protesta incisa da Carmen Villani

Dal 1964 al 2013 ha inciso 25 singoli come Umberto (Umberto Maj) e dal 1977 al 1991 sette album.

Nel 1967 partecipò come autore al Festival di San Remo con “Il Cammino di ogni Speranza” proposta da Caterina Caselli e Sonny and Cher ed al Disco per l’estate interpretando “Gioventù”.

Nel 1969 fu finalista a Settevoci con “A Laura”. e partecipò 3 volte al Festival di San Remo nel 1977 con “Con te ci sto”, nel 1979 con “Bimba mia” e nel 1981 con “Mille volte ti amo”.

Negli anni successivi si dedicò alla carriera di autore e riprese l’attività di cantante nel 1976 con “Oggi settembre 26” partecipando alla Mostra internazionale della Musica Leggera.

Nel 1978 partecipò al Festivalbar con “Amiamoci”.

Il suo maggior successo di vendite fu “Come ti chiami?”. Ha scritto per Rita Pavone, i Ricchi e Poveri, i Nomadi, Loredana Berté, i Nuovi Angeli tanto per citare i più conosciuti, collaborando con Ricky Gianco, Mogol, Mario Tessuto, Paolo Limiti.

Nel 2012 dopo 22 anni si ripropose con “Volerò” partecipando al programma musicale “Mille Voci” di Gianni Turco.

Un autore singolare, Umberto Napolitano, che conquistò i Figli dei Fiori con le sue canzoni di protesta contro la guerra e ora viene applaudito dai figli dei Figli dei Fiori che nel frattempo hanno buttato nel cassonetto i pantaloni a zampa d’elefante e le chitarre sostituendoli con giacca, cravatta e la ventiquattrore. Le canzoni di protesta sono un ricordo; i fiori nei cannoni, il ragazzo che amava i Beatles e i Rolling Stones, le chitarre contro la guerra fanno parte del passato, ma un atteggiamento nostalgico non è nel dna di Umberto Napolitano. Non è così che si approccia al suo nuovo pubblico, ma con vigore lo esorta a riconquistare valori come l’onestà e l’integrità morale e soprattutto ad avere il coraggio di riprendere le fila della propria vita. I problemi spesso ce li creiamo noi; la vita ci da tanto, ma noi siamo troppo distratti per accorgercene.

Con il carisma che gli è peculiare, affascina giovani, ed ex-giovani, li ammonisce con le sue canzoni a non cedere alle lusinghe di una società che si è evoluta, o involuta, ed è diventata cinica, spietata, avida e corrotta; una società che detta leggi basate sul profitto e il potere. Lui lo fece agli inizi degli anni ’90; rimase fedele ai suoi principi e si auto impose un lungo pit-stop. Scomparve dalle scene.

Dopo ventidue anni di silenzio, si rimette in gioco. In tutto questo tempo si è tenuta stretta la sua passione per la musica, senza cedere a compromessi, senza abbarbicarsi al passato. Rinnovandosi continuamente, trova nell’oggi le risorse e gli stimoli per rinvigorire la sua vita artistica.

Con ammirevole efficacia si propone al pubblico presentando “Il Bruco (il risveglio della crisalide)” il libro che segna l’esordio di Umberto Napolitano nel ruolo di scrittore. Nel prologo lo stesso Autore scrive: “Spesso noi umani mal conviviamo con il bruco che esterniamo agli altri. Ci muoviamo persi e rassegnati fra la gente in un mondo che pare annullarci nello scorrerci intorno lento. ………………….. Un mondo al quale con difficoltà tentiamo di ribellarci, ma quando, finalmente, ci riusciamo e uccidiamo il bruco che ci limita e ci opprime, ecco che finalmente ci evolviamo dando vita e spazio alla farfalla che è in noi.. anche se, a volte, per uno strano gioco del destino, è una falena inaspettata, aggressiva e distruttiva.”

Scritto con un linguaggio al fulmicotone, la trasformazione del bruco in farfalla avviene a ritmo serrato, scandito dal “deng-dedeng-dedeng-deng” di una Fender Stratocaster. Un libro intenso, coinvolgente, rigoroso, quasi brutale nel racconto degli eventi, corredato da esaustivi riferimenti storici. Un libro speciale che induce il lettore a sperare, un giorno, di liberarsi dalle sue pastoie, di abbandonare lo stagno e di riuscire a volare, libero nel cielo. Tutti siamo bruchi che vorremmo diventare farfalle. C’è chi riesce e chi no, ma per lo meno ci prova.

Nel libro non si parla di musica ma gli eventi sono scanditi da un ritmo incalzante. Tratta argomenti molto attuali, e per trasformarsi da bruco a farfalla la gente può arrivare a dei gesti estremi, non giustificabili, ma comprensibili, dovuti all’esasperazione di essere costretti a restare bruchi.

Il viaggio che i protagonisti compiono da Milano a Trieste, superando numerosi ostacoli, in certi momenti rischiando grosso, è la metafora del viaggio della vita che ci impone di fare delle scelte per raggiungere l’obiettivo di diventare farfalla e volare via. La domanda è ma volare dove?

C‘è un rimpianto, qualcosa che ti manca o qualcosa che volevi fare e non hai potuto? Cosa farai da grande?

Il libro è corredato di un CD che contiene dieci brani scritti e interpretati da Umberto Napolitano che ripercorrono il suo percorso artistico e un undicesimo brano scritto in collaborazione con Andrea Amati e interpretato da Matteo Merlotti di cui Umberto Napolitano apprezza ‘ la voce e la qualità interpretativa.’

Consigliando a tutti gli Amici della “Voce” la lettura de “Il Bruco”, auguro a tutti voi buone vacanze e, se vorrete, arrivederci a settembre. Auguri anche a te Umberto e alla tua speciale compagna di una vita Natalina. Ciao a tutti.

Maria Lacchio

Maria Lacchio a Maggio 2016 incontra GIAN CARLO PALAZZO

GIAN CARLO PALAZZO
Da qualche giorno si è conclusa la mostra delle opere del pittore Gian Carlo Palazzo presso la Galleria del Centro Culturale “Jacopo Durandi” di Santhià. Le sue opere hanno suscitato grande interesse tra il pubblico sia per la loro bellezza estetica sia per le emozioni che trasmettevano attraverso gli sguardi dei volti ritratti, a volte nitidi, schietti, a volte quasi nascosti da una soffice velatura.Gian Carlo Palazzo nasce a Trino Vercellese nel 1962, si diploma presso il Liceo Artistico di Torino, Accademia Albertina, nel 1980, quindi si laurea in architettura al Poli di Torino nel 1987. Il suo lungo percorso artistico è ricco di riconoscimenti e premi, ma soprattutto è ricco di emozioni e sentimenti, positivi e negativi, che con pennellate precise ed efficaci trasmette a coloro che ne sanno condividere la sensibilità.

 

Ecco come lui stesso definisce la sua arte.

“All’origine della mia arte c’è uno stupore di fronte alla realtà tutta, alla gioia, al dolore, alla vita, alla morte. Provate ad immaginare se ognun di noi fosse proiettato adesso nella vita dal ventre di sua madre con la consapevolezza che ha adesso, con gli anni che ha adesso, che cosa proverebbe aprendo gli occhi e guardandosi attorno? Appunto uno stupore, un grande stupore perché le cose esistono, perché la realtà c’è, tutta la realtà e saremmo come i bambini che osservano tutto con la bocca aperta. Osservano tutta la realtà …

Ma c’è anche un altro punto; anche se si vivesse così, cioè con questo stupore davanti agli occhi, rimarrebbe sempre una specie di buco nero, un enigma; le cose, le persone, la realtà non bastano mai, manca sempre qualcosa, c’è un’attesa. Il dato è per tutti questo, che le cose non bastano; è un ragionamento basato su un dato … uno si pone un obiettivo nella vita, lo raggiunge ed è contento, ma solo per un po’, poi … Ciò è la prova, a mio avviso, della grandezza dell’animo umano che è talmente grande che la realtà non lo soddisfa; e c’è un dramma sotto, perché l’uomo cerca la soddisfazione. Possiamo allora dire che l’animo umano è talmente grande che solo un infinito può soddisfarlo e allora è all’infinito che mi devo rivolgere, è con l’infinito che devo fare i conti e questo è un ragionamento basato sulla ragione, sull’esperienza. La ragione dice che le cose non ti bastano, tu sei più grande.

Io maldestramente tendo a far rivivere  tutte queste cose nelle mie opere. È un’arte che quindi porta in sé la vita ,colta in queste sue caratteristiche essenziali, che tende a cogliere ciò che sta dietro l’apparenza, tenta di cogliere le domande, le gioie, i drammi, non è una concezione dell’arte rose e fiori; per un altro può essere diversamente …

Una mia vena ricorrente è il volto umano, che è affascinante. Io sono anche un ritrattista. Il volto rappresenta per me sinteticamente tutto l’uomo. Il volto oggi non è nitido, è sfocato o addirittura ‘aprosopos’, senza volto – così si chiamavano gli schiavi dell’antica Grecia -. Senza volto è colui che non ha identità o che è smarrito. Quanto siamo piccoli lo sappiamo, ma, attenzione, c’è un altro aspetto; paradossalmente l’uomo è anche quel livello della natura in cui la natura chiede il significato di tutto. Il sole non pone domande, un albero non urge un senso, l’uomo sì, per cui, paradossalmente l’uomo è più grande anche del sole.”

Dopo questa esaustiva esplicazione della sua arte, non possiamo che ammirare le sue opere con occhi nuovi, con stupore, appunto e andare ‘oltre’ le forme e i colori. Ringrazio Giancarlo Palazzo per la sua cortese disponibilità e lo lascio con l’augurio di poter ammirare presto altre sue opere.

 

Maria Lacchio, ad aprile 2016 incontra  DANIELA CARONE

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Questa elegante e riservata signora che attualmente risiede nella città dei fiori e del Festival della Canzone Italiana è di origini vercellesi.

Conseguiti la laurea in filosofia presso l’Ateneo torinese e il diploma in pianoforte presso il Conservatorio di Alessandria, intraprende a carriera  di insegnante di storia della musica.

Nello stesso tempo coltiva la sua passione per la scrittura e nel 2007 pubblica «Una canzone … cento ricordi» (ed. Comune di Sanremo). Il libro nasce da un’esperienza lunga tre anni presso la casa di riposo comunale

.Persona sensibile e particolarmente attenta, dalla sua esperienza di insegnante trae spunto per l’allegro e simpatico libro «Allegro ma non troppo» (ed. Gallo VC 2012)  nel quale ha raccolto gli strafalcioni musicali dei suoi allievi.

L’anno successivo, sempre basandosi sulla sua esperienza di insegnante, pubblica una serie di racconti autobiografici  sulla vita lavorativa e non. L’ironia del libro sta già nel titolo «Una vita da precaria». (ed. Ilmiolibro.it)

Nel 2014 abbandona la prosa e intraprende con successo un nuovo percorso letterario e pubblica «Dissonanze, viaggio verso l’armonia» (ed. Ilmiolibro.it) una silloge di settantacinque poesie che raccontano quarant’anni di vita.

Dopo questa parentesi, nel 2016 torna alla prosa e pubblica «IL SOGNO INFRANTO o l’integrazione è possibile?» considerazioni, storie e pensieri su due argomenti di tragica attualità: l’immigrazione e il terrorismo. Il libro verrà presentato a breve presso la biblioteca di Santhià. In quell’occasione sarà la stessa Autrice a parlarci della genesi del libro e dei sentimenti che l’hanno ispirata. Spiegherà inoltre anche il suo punto di vista riguardo a questo argomento tanto controverso.

 

 

Maria Lacchio -marzo 2016-  intervista Omar Bassan

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Cari Amici della “Voce”, l’Artista che questo mese racconta la sua storie è il cantante lirico Omar Bassan.  La mia conoscenza d Omar risale a parecchi anni or sono; era un ragazzino di dodici anni, educato, diligente e un po’ riservato. Per tre anni l’ho ‘torturato’ con i compiti in classe e le interrogazioni di inglese, ma mai, nemmeno una volta, si è fatto trovare impreparato. Sicuramente, Omar è stato tra i miei allievi migliori, sia dal punto di vista scolastico, sia, soprattutto, dal punto di vista umano. Sono orgogliosa di averlo avuto come allievo e sono felice che abbia affinato il suo talento e che si dedichi con passione alla nobile arte della musica.

Ecco quello che mi ha raccontato:

“Mi sono diplomato ragioniere a Vercelli ed ho continuato a vivere ad Albano, non posso pensare di chiudermi in un condominio di città. Di contro, poter lavorare in un capoluogo di provincia (sono uno dei Vigili di Vercelli … anzi, ora si dice Agenti di Polizia Locale!!!) mi dà modo di non rimanere troppo distaccato dal mondo che mi circonda ed anche la possibilità di conoscere più persone. Ma tornando alla musica, non ho avuto una vera e propria ‘spinta’ da parte di qualcuno. Piuttosto, la passione è nata così, cantando in macchina con i miei genitori e ascoltando già da bambino dischi e cassette, cantandoci su a mia volta. Da adolescente è nata la passione per il rock e per la chitarra elettrica; poi le classiche garage band con gli amici sono state le prime esperienze musicali. Negli anni successivi ho fatto esperienze di vario genere; dal rock dal vivo nei pub della zona, passando successivamente alla musica da ballo e al pianobar. Circa otto anni fa’ poi, ho collaborato come solista in uno spettacolo teatrale ambientato negli Anni ’30 nel quale mi esibivo cantando musiche da operetta. Da lì la svolta e una ferma presa di coscienza: se volevo migliorare mi serviva un insegnante.  Eh, sì, perché fino a quel momento il mio canto era puro istinto. Fortunatamente ero musicalmente predisposto e dotato di una discreta intonazione; ma negli anni mi resi conto che per cantare seriamente avevo bisogno di una guida. E così, quasi per caso, vincendo un concorso di canto moderno conobbi Maria Chiara Boscolo, insegnante di canto e giudice della gara in questione. Spesi due anni buoni di lezioni con lei, iniziando anche a prendere lezioni di pianoforte e di teoria musicale. Successivamente decisi di cambiare insegnante e di rivolgermi a qualcuno con maggiore esperienza.

Arriviamo quindi ai giorni nostri. Sono ormai quattro anni che studio canto lirico e che viaggio da e per Torino dalla signora Wally Salio, un affermato soprano che nella sua lunga carriera ha ricoperto diversi ruoli importanti.

La musica per me è una componente essenziale della mia vita, una costante fin dai tempi dell’infanzia. Per questo motivo difficilmente dico di no quando si presenta la possibilità di esibirmi. La partecipazione a “Mezzogiorno in Famiglia” è stata una delle esperienze più belle della mia vita, e ci tengo molto a ringraziare il maestro Gianni Villafranca che, credendo in me, mi ha dato l’opportunità di cantare in diretta nazionale (che emozione!) e di vedere da vicino come funziona il mondo della TV.

Non lo nascondo, il mio sogno nel cassetto è poter vivere di musica! Sia chiaro, non sto dicendo che sogno di diventare famoso, ma semplicemente vorrei fare della musica una professione che mi permetta di vivere dignitosamente. Certo, sto con i piedi per terra e sono consapevole che gli studi non sono affatto terminati, ma in ogni caso, sto investendo tanto in questo progetto, sia in termini economici che di tempo. Tutto questo però non è un peso, lo faccio con passione.”

Cari amici, non possiamo far altro che augurare ad Omar di realizzare il suo sogno e chissà, un giorno potremo vedere il suo nome stampato a caratteri cubitali su un cartellone della Scala. In bocca al lupo, Omar!

 

 

Maria Lacchio intervista Maria Chiara di Gregorio

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Se il mese scorso Marco Sanzone  ha trasportato il pubblico della “Voce” in un immaginario viaggio nel magico mondo glaciale dell’Artico, qualche giorno fa’ è stato catapultato in Oman, dove le temperature si aggirano sui 45 gradi. Ad accompagnarlo è stata la dottoressa Maria Chiara Di Gregorio, che in Oman svolge il particolarissimo lavoro di restauratrice di libri antichi islamici.

Ma, dove si trova l’Oman? Da questa ‘semplice’ domanda ha preso il via la conferenza che la dott.ssa Maria Chiara di Gregorio ha tenuto venerdì scorso nella sala blu del Centro culturale “Jacopo Durandi” ad introduzione della mostra di libri antichi islamici .

Nella prima parte della conferenza con il supporto di bellissime foto ha raccontato la realtà di questa penisola pressoché sconosciuta, che fa pare della penisola Arabica e si affaccia sull’oceano Indiano.

Alla domanda, come sono accolti gli occidentali? Ha risposto che una peculiarità del popolo omanita è l’ospitalità, essendo abituato alla presenza di turisti che sbarcano dalle navi da crociera che attraccano ai porti. Inoltre, ha spiegato, nella sua storia l’Oman è stato conquistato prima dai Portoghesi e in seguito dagli Inglesi e pur avendo lottato duramente per la propria indipendenza, ha mantenuto buoni rapporti, soprattutto commerciali con l’Occidente.  Ora il ricco Sultanato (grazie al petrolio) è indipendente, ha una propria moneta, il rial, e, piccola curiosità, la sua bandiera ha gli stessi colori di quella italiana. L’attuale Sultano è molto amato dal popolo.

“Qual è il ruolo della donna?” è stata la domanda successiva.

“In Oman la donna è tenuta in grande considerazione” ha risposto la dottoressa. “Al contrario di quanto accade negli altri Stati dell’Arabia Saudita, il Sultano ritiene che la donna sia una grande risorsa e ne caldeggia l’istruzione. Le donne possono studiare, lavorare e votare. Il Sultano è un uomo aperto alla cultura e oltre al National Museum ha fatto costruire un magnifico auditorium dove vengono rappresentate opere liriche e dove si tengono concerti, al contrario degli altri emirati dove la musica è bandita.

Ha molto stupito la platea lo stile architettonico degli edifici della Capitale Masquade e delle rigogliose oasi dove si coltiva principalmente la palma da dattero.

Maria Chiara ha spiegato che secondo il calendario omanita sono nel 1437, pertanto in pieno Rinascimento. Un Rinascimento, ha precisato, che coinvolge non solo l’architettura ma tutta la vita di questo popolo ospitale e moderato, contrario alla violenza, che però non dimentica le sue radici e mantiene vive le proprie tradizioni. In Oman il Sultano ha abolito la pena di morte, pratica ancora ampiamente diffusa negli altri Stati arabi.

La seconda parte della conferenza è stata dedicata in toto all’affascinante lavoro di restauro di libri antichi. La dottoressa ha spiegato le differenze che intercorrono tra i libri antichi islamici e quelli occidentali con l’ausilio di foto e di fac-simili di libri, interagendo con un pubblico interessato che l’ha subissata di domande.

“Quanti libri ha  restaurato?” le è stato chiesto. “Più di quaranta” ha risposto. “E’ un numero importante” ha proseguito. “Alcuni erano in pessimo stato e hanno richiesto un lavoro certosino.”

“Qual è stato il libro più antico che ha restaurato?”

“Un Corano del XVII sec.”

L’interesse crescente del pubblico ha condotto a domande più tecniche, ad esempio sul tipo di carta usata e, sorpresa sorpresa, la carta usata proveniva dall’Italia, trattata poi in maniera particolare affinché fosse compatibile con il loro inchiostro. Molta curiosità ha suscitato la copertina molto più sottile di quella dei libri occidentali, e dotata di un prolungamento decorato che funge da segnalibro. Così come è stato molto ammirato il leggio portatile che si apre a 90 gradi.

Maria Chiara, che tra qualche giorno tornerà a Masquade a proseguire il suo percorso lavorativo presso il National Museum, ha risposto a tutte le domande; la sua competenza e la sua simpatia hanno conquistato il pubblico che le ha tributato un caloroso applauso augurandole buon viaggio e buon lavoro, strappandole la promessa di tornare a raccontare un altro pezzo di storia dell’affascinante  Oman e del restauro di libri antichi.

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Maria Chiara di Gregorio con il neopresidente della Voce Renato Gialluca

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maria Lacchio intervista Marco Sanzone

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Amici di “Voce all’Artista” Buon Anno.

Se, come si dice “il buon giorno si vede dal mattino” questo 2016 sarà un anno strepitoso. Nella galleria del Centro Culturale Jacopo Durandi ancora per qualche giorno sarà possibile ammirare le suggestive fotografie che MARCO SANZONE ha scattato durante i suoi viaggi al Nord, molto a nord, addirittura all’Artico. Se pensate che l’Artico sia solo un gelido deserto di ghiaccio vi sbagliate; MARCO SANZONE lo ha testimoniato non solo attraverso le sue fotografie ma anche durante un’appassionante serata durante la quale ha affascinato il numeroso pubblico presente con i suoi racconti di viaggio in un mondo affascinante e pressoché sconosciuto ai più. Per chi quella sera non era presente ho pensato di chiedere a Marco di raccontarlo in Voce all’Artista.

“E’ per me un immenso piacere poter nuovamente condividere le emozioni che provo durante i miei viaggi artici.

Ho 40 anni, abito a Vercelli da quando sono nato, sono sposato, ho due figli e lavoro come impiegato presso un supermercato, conduco una vita normale  se non fosse che ogni giorno, il mio cuore e la mia mente, si fanno travolgere da un forte richiamo e una profonda nostalgia dell’Artico. Una sorta di visioni e immagini di luoghi che ho visitato durante le mie esperienze che annullano completamente tutto cio’ che e’ intorno a me catapultandomi in una sorta di dimensione parallela alla mia realta’; un’emozione vissuta ad occhi aperti.

La mia passione è nata nel 2004 con il mio primo viaggio fatto in Norvegia lungo tutta la costa da sud a nord. In quel viaggio mi resi conto che il mio futuro sarebbe stato nell’Artico. Venni totalmente rapito dai luoghi e da tutte le emozioni che esse mi trasmisero. Mi resi conto dal profondo del mio cuore di aver toccato la purezza e di aver respirato l’immensità e la voce della Natura ancora libera di plasmare ogni cosa. Il silenzio avvolgeva ogni luogo mentre i forti venti irrompevano nelle valli, nei boschi, mentre l’oceano con tutta la sua potenza, creava onde immense capaci di mettere in difficoltà anche il marinaio più esperto.

Mi fu subito chiaro che a certe latitudini la Natura non scherza. Il tempo cambiava continuamente e si passava dalla bufera al bel tempo in pochi minuti; forse è stato anche questo a farmi aprire gli occhi su una realtà che, prima di allora, non potevo neppure immaginare.

Un viaggio fatto con lo scopo di visitare una terra sconosciuta, si è trasformato in una vera ossessione che ogni giorno è capace di rapirmi e portarmi li.

Negli anni successivi, abbracciai l’Artico completamente in modo più profondo e con viaggi in luoghi sempre più remoti, passando dall’Artico alle zone subartiche fino ai viaggi polari.

Chi è stato nell’Artico e lo ha vissuto si riconosce, in quanto è costantemente colto da una particolare forma di nostalgia verso luoghi dove si ha la chiara impressione di essere tornati ai primordi, lontani dalla frenesia e dal consumismo di cui noi tutti viviamo.

Il malessere che si avverte dopo questi viaggi, è considerato il mal d’Artico, e cioè l’incapacità di riaccettare la vita quotidiana e la struttura sociale a cui si appartiene. Le mie esperienze mi hanno portato a pensare che chi ha respirato l’Artico, è una persona trasformata, diversa e destinata certamente a tornare. Il silenzio dell’Artico, non si scorda mai più.

I miei viaggi li organizzo con molto anticipo, mi piace studiare gli itinerari, i percorsi, i passaggi aerei, i pernottamenti. Adoro attraverso le cartine pianificare ogni genere di escursione creandomi un tour avventuroso in modo tale da respirare l’essenza e di ascoltare il silenzio nel modo più profondo possibile, non mi appoggio a nessuna agenzia di viaggio o tour operator, ma prenoto io da casa. Per me è una passione che continua anche dopo essere tornati a casa. Spesso aiuto e consiglio le persone che intendono affrontate un tour verso quelle terre con itinerari e consigli.

Ai viaggi artici partecipa anche la mia famiglia ed è per questo motivo che due anni fa, ho creato il nome di Oltrenord, nome che uso per raccogliere tutte le mie foto, le mie esperienze, le mie avventure e per identificare e stimolare la mia famiglia durante i miei viaggi, ho creato anche delle magliette oltrenord che usiamo nelle nostre avventure, e ciò ha coinvolto mio figlio più piccolo a tal punto da farlo sentire un vero esploratore.

Quando faccio le foto, non uso una tecnica speciale, non mi piace eleborarle, mi piace fotografare nel modo piu’ naturale possibile, la purezza dei soggetti che fotografo non hanno bisogno di ritocchi perché esprimono già l’idea di un luogo irreale e vivo. Mi piace fotografare paesaggi  e fare primi piani, questo per poter trasmettere a chi guarda i miei scatti, di sentirsi immerso nel luogo e di provare un’emozione di libertà.

Partendo da un presupposto, che quando si va nell’Artico, tutto è avventura ed emozioni. Io tengo vari ricordi che non potrò piu’ scordare. In fondo, io vivo quei luoghi, ormai come una mia seconda vita. Ma se devo scavare nei miei ricordi, allora porto i miei pensieri in una attraversata che fu per me, una situazione che non scorderò piu’ in quanto misi in pericolo la mia incolumità. Era tra i primi viaggi che facevo e la voglia di viaggiare ed esplorare, superava le precauzioni necessarie per la sicurezza, opportune per tutti gli spostamenti.

Prima regola dell’Artico: non esistono giornate meteorologicamente stabili, perché le nuvole sono sempre in agguato, e in un attimo l’intero panorama cambia divenendo a volte irriconoscibile e si rischia di perdere l’orientamento con il conseguente concreto rischio di perdersi.

Durante uno spostamento notturno in una strada secondaria di un passo montano norvegese, ammiravo la luna che rifletteva sui laghi che incontravo, le stelle erano splendenti e davano l’idea di trovarsi nello spazio. Attormo a me c’era un silenzio ovattato; grosse pietre ai bordi della strada mi apparivano quasi animate, e tutto ciò mi portava con l’immaginazione al mondo dei Troll. Tutto era perfetto lungo quella strada dove non incontrai nemmeno un’auto, né una persona. Ero solo in un luogo sperduto della Norvegia; neppure la cartina riportava il percorso che stavo facendo. Superato il valico, grosse nubi avvolsero l’intera vallata e una fitta nevicata si scatenò quasi istantaneamente. Decisi di continuare a guidare verso la mia meta ignorando quasi del tutto la gravità delle condizioni meteo che continuavano a peggiorare, perché pensavo fosse soltanto una situazione passeggera.

Arrivai in fondo valle e mi resi conto che non potevo continuare in quanto il mio mezzo non era dotato di catene. La visibilità era quasi a zero, il vento era molto forte e il manto nevoso era già molto notevole. Con difficoltà girai il veicolo per tornare al luogo di pernottamento dall’altra parte del valico, ma i miei pensieri erano tutti rivolti alle condizioni della strada e alla linea telefonica, che in quella zona era assente. La macchina scivolava molto anche se procedevo a passo d’uomo. La strada piena di tornanti non aveva segnaletica o barriere, e se avessi sbandato, di certo sarei uscito di strada, precipitando in uni dei numerosi burroni o in mare. Presi coscienza che in quel momento stavo davvero rischiando la vita. Mentre affrontavo i tornanti, viaggiavo con i finestrini abbassati perché pensai che se avessi sbandato, avrei avuto qualche possibilità in piu’ di uscire dal veicolo, soprattutto se avessi sbandato verso il mare. La neve continuava a cadere violentemente, la tempesta non mi dava modo di pensare ad altre soluzioni. Durante la salita cercavo di intravedere qualche riparo sotto qualche roccia, ma questo avrebbe voluto dire un serio rischio di assideramento. Pensai di fermare il veicolo e rimanere con il motore acceso per scaldarmi fino all’indomani, ma il vento era talmente forte che spostava l’auto e con la neve sulla strada rischiavo ancora di più. Ho pensato davvero di tutto e credevo di non riuscire passare la notte. Riuscii ad arrivare sulla punta del passo senza neanche rendermene conto. La mia felicità era immensa anche se la parte più difficile sarebbe arrivata di lì a poco perché da lì iniziava una ripida discesa verso la valle e avrei avuto più possibilità di sbandare rovinosamente. La neve continuava a cadere e il manto ricopriva tutto, non riuscivo e vedere dove fosse l’estremità della strada; sentivo solo il vento e il rumore di poderose onde che si infrangevano sugli scogli. Con estrema lentezza affrontai i primi tornanti disperso nella nebbia e, come accade spesso nell’artico, dopo aver superato una curva, la nebbia sparì, smise di nevicare e vidi il cielo stellato con la strada totalmente senza neve e asciutta come se nulla fosse capitato, mentre a poche centinaia di metri indietro imperversava una forte tormenta. Fu un momento che mi tolse il respiro. Ero salvo. Fu una lezione preziosa che dovevo imparare prima o poi. Mai sottovalutare l’Artico; e in particolare si deve essere equipaggiati in modo adeguato per qualsiasi emergenza specialmente se si viaggia in solitaria.

Tra i miei ricordi subpolari, porto alla luce una tazza di caffé bevuto in una tenda del popolo dei Sami accanto ad un fuoco nella tundra della Lapponia, luogo pieno di fascino e mistero, dove temevo che il rumore del mio respiro potesse rompere l’atmosfera di magia che avvolgeva quel posto. Il fuoco ardeva e mi scaldava, le fiamme mi apparivano danzanti quasi come in rito magico che entravano nel mio cuore e mi facevano assoporare la cultura di quel popolo facendomi capire che il visitatore era ben accetto, ma doveva rispettare la loro cultura, le usanze e mantenere l’equilibrio che loro hanno con la Natura.

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Quando sono in viaggio le giornate iniziano molto presto perché mi piace vedere più cose possibili. Inizio con la pulizia della macchina fotografica e della telecamera, preparo le batterie di riserva, e mentre faccio una ricca colazione scandinava ( uova, bacon, waffel e marmellata) osservo la cartina per visionare il percorso del giorno. Pronti, via! Salgo in auto senza preoccuparmi se piove o nevica perché so che in questi posti è normale vedere le quattro stagioni in un solo giorno. Non faccio molta strada; quasi subito incontro un particolare che richiede una mia foto o un breve filmato. Nei miei spostamenti non guardo l’orologio; in questi posti si ha davvero l’impressione che il tempo non esista, non si contano i respiri che si fanno, ma quanti attimi tolgono il respiro. Il pranzo non ha orario, e quando capita mi piace gustare un delizioso e morbido burgher con patatine. Mi piace percorrere strade non convenzionali e secondarie per respirare a fondo tutto il gusto dell’avventura e l’idea di libertà assoluta. In genere nel tardo pomeriggio, arrivo nel nuovo pernottamento dove dopo una rilassante doccia bollente, ci si occupa della cena che solitamente consiste in una squisita zuppa calda. E mentre la notte cala, mi piace guardare il cielo nei suoi colori del tramonto e respirare il freddo pungente che accompagna la notte. Anche se in estate il sole tramonta molto tardi, spesso ho l’impressione che le giornate siano troppo corte e di non essere riuscito a vedere tutto. Un tipo di frustrazione che colpisce molti viaggiatori artici.

Il mio prossimo viaggio sarà nuovamente in Islanda, terra che amo moltissimo perché sull’isola, incontro tutto l’artico in modo concentrato, continui mutamenti di paesaggi e di climi, luoghi remoti e singolari, tanto da dare l’impressione di essere stato catapultato su un altro pianeta del sistema solare.

Sto pianificando un tour con un 4×4 per fare gli off road, una vera e propria spedizione tra torrenti da attraversare, cascate possenti, deserti di lava, ghiacciai e pozze geotermiche in compagnia di mia moglie e di mio figlio di 10 anni.

Dal mal d’Artico non si puo’ guarire; l’unica cosa da fare è sopportare l’attesa fino a quando non si riesce a tornare. (oltrenord)

Breve nota

OLTRENORD, viaggi oltre il semplice nord. Il mio proposito è quello di catturare il più possibile di queste terre, ed è anche quello di insegnare a mio figlio piccolo l’importanza di tutelare l’ambiente qualsiasi esso sia, di quanto sia importante rispettare la natura e di fargli vivere luoghi dove non esiste il consumismo e le scontatezze, oltre che interfacciarsi con culture e tradizioni non comuni alle nostre latitudini. Attraverso le avventure gli insegno a catturare il bello di ogni cosa e a riflettere su avvenimenti naturali visti dal vivo.

Nei principali social network, pubblico le foto che faccio e mi piace commentarle con altre persone che hanno la mia stessa passione. La foto, i viaggi, sono un hobby che sto cercando di approfondire sempre di più perché tra i miei sogni nel cassetto, c’è anche quello di far diventare la mia passione un vero e proprio lavoro.

Pensieri di oltrenord

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Qui nell’Artico, ho donato un pensiero al vento sapendo di non poterlo più rivedere,

ma se lo vorrà, sa che io sarò sempre qui ad attenderlo.

Artico, dove il cuore e le emozioni possono abbandonarsi nelle sconfinate valli del silenzio.

Il silenzio dell’Artico è la piu’ bella voce che percepisci e l’immensità dei paesaggi riempiono il cuore con le più profonde emozioni.”

Marco Sanzone ( OLTRENORD )

E questo è solo l’inizio; continueremo a farci raccontare le storie dei suoi viaggi da Marco, artista-fotografo-viaggiatore. Alla prossima.

 

 

Maria Lacchio intervista PAOLO RANIERI

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Mentre ottanta cavalieri in armatura duellano nel giardino del Castello di Quinto Vercellese scambiandosi botte da orbi nei due giorni di stage internazionale sul’arte del combattimento medioevale, nelle sale del Castello viene inaugurata l’affascinante esposizione dei quadri di Paolo Ranieri.

Al taglio del nastro, oltre al vice sindaco Alessandra Ticozzi è presente il principe Zagarelli e il suo consiglio.

Di forte impatto visivo sia per i vivaci colori usati dall’artista, sia per il loro forte simbolismo, i quadri di Paolo Ranieri sono un concentrato di emozioni. Il tema delle sue opere è particolare: i Templari, personaggi sui quali molto si è scritto ma la cui conoscenza è spesso confusa.

Avevo preparato una serie di domande da porre all’artista, ma non è stato necessario perché Paolo Ranieri parla di sé a ruota libera e spiega in termini semplici ma esaustivi le sue opere. Il suo entusiasmo e la sua passione sono contagiosi e con i numerosi ospiti l’ho ascoltato in religioso silenzio.

“Sono nato 70 anni fa nella ridente città di Crotone, sede di Pitagora e la sua scuola. L’amore per l’arte e per il disegno nasce e si sviluppa già in giovanissima età. Senza mai lasciarmi.

Autodidatta per natura, ero affascinato dai quadri che si trovano nelle chiese, mi sono appassionato ai pittori del ‘400, a Caravaggio, a Durer, al Ghirlandaio…

Nell’arco degli anni ho partecipato a centinaia di mostre in Italia e all’estero, riscuotendo sempre un grande successo di pubblico.

Nel corso della mia carriera artistica ho costituito e partecipato a diverse associazioni artistiche e culturali. Attualmente sono responsabile del settore artistico dell’A.N.M.I.C.

Anche la passione per il Medioevo era presente in embrione finché non ho conosciuto un ex Gran Maestro Templare presidente dell’A,N.M.I.C.

Il destino era segnato: ho letto, studiato e frequentato l’ambiente Templare da vicino e dal di dentro. E il Cavaliere che era dentro di me è venuto fuori.

Ho scoperto che come ‘Signori si nasce’ anche ‘Cavalieri si nasce’ e non si diventa. Ora, come può un pittore mettere in scena ciò che uno scrittore o uno storico ha scritto, come può raccontarlo visivamente, scena per scena, come una pagina di un libro? La mia mente elabora la scena e poi come un regista metto i personaggi sulla scena e sulla tela.

Perché raccontare dei Templari? Perché ignorarli sarebbe ignorare coloro che hanno creato le cose più belle della cristianità; le Cattedrali, le banche, la carta d’identità, la  lettera di credito, il moderno bancomat. Pur essendo poveri erano i banchieri di Dio. Ancora oggi si percorrono le loro strade per arrivare a piedi in Terra Santa, o per lo meno a Roma o a Brindisi. Un luogo famoso di partenza è Santiago di Compostela in Portogallo. Mentre l’Europa viveva nell’ignoranza, nei 300 anni di permanenza in Terra Santa, Siria, Sion, Egitto, i Grandi Maestri hanno avuto modo di apprendere dai Saggi locali tutte le scienze conosciute e importarle in Europa.

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Non dimentichiamo che questi Cavalieri avevano fatto giuramento di difendere la Cristianità, diventando Frati guerrieri. I monaci si dividevano in tre categorie: coloro che pregavano, coloro che lavoravano nei campi e si occupavano del vettovagliamento sia interno che esterno e, infine, i monaci guerrieri che altro non erano che ex cavalieri erranti che difendevano i pellegrini durante il tragitto. Poiché la storia la scrivono i vincitori, ci si ricorda solo della loro scomunica da parte di Filippo il Bello e da papa Clemente omettendo che era un sotterfugio per portar via tutte le sostanze e i possedimenti ai Templari.

Altri miei quadri trattano argomenti biblici; riprendono le stupende pagine della Bibbia altrimenti rappresentate nelle coloratissime e stupende vetrate delle Cattedrali.

Ma non solo, oltre alla Sindone e al Velo della Veronica, sono state fatte scoperte che devono restare nascoste per sempre, anche se il Segreto dei segreti è celato in centinaia di tasselli sparsi ovunque, visibili solo a coloro che conoscono la geometria segreta per decifrarne gli indizi; indizi che farebbero cadere la cristianità.

Io, i miei quadri li considero figli, in quanto partoriti con sofferenza e tanto amore, non ne esiste uno migliore dell’altro, ognuno è diverso e io li amo tutti, e ognuno racconta una storia diversa.

La tecnica e i colori sono la visione mentale di quel momento storico o visivo. Convivo in simbiosi con l’opera per molto tempo, cerco la sua tridimensionalità; il soggetto deve vivere, uscire dalla tela per venirci incontro; alcuni accorgimenti rappresentano un valore aggiunto, per questo sono sempre alla ricerca dei materiali adatti allo scopo.

Tutti i miei quadri, non solo quelli dei Templari, sono stati creati per raccontare un fatto, un aneddoto che ha colpito il mio interesse: Quindi, tutti hanno un messaggio; per i Templari il messaggio è rivalutare la verità e la loro grandezza.”

E’ scesa la sera; i cavalieri si sono tolti le loro armature, i combattimenti sono finiti al tramonto ed ora in jeans e felpe colorate si ristorano con hamburger e coca-cola. Il passato ha lasciato il posto al presente, ma le parole di Paolo Ranieri restano nelle nostre menti e ci tengono legati ancora per un po’ a quel passato glorioso e leggendario che ci ha fatto rivivere con i suoi quadri.

 

 

Maria Lacchio intervista  VERA VACCARI

VERA VACCARI

Vera Vaccari, mantovana di origine, vive a Collobiano dove svolge la sua attività. Definirla pittrice è riduttivo perché la sua produzione artistica comprende anche sculture, ceramiche, stoffe dipinte con tecniche particolari. Nella sua casa sono raccolte centinaia di sue opere. Insegnante di Educazione Artistica, ha partecipato a mostre in tutta Italia e all’estero; alcune sue opere sono tutt’ora esposte al Quirinale, alla Reggia di Caserta e un altre sedi prestigiose. Donna generosa e sensibile e artista poliedrica venne premiata come migliore insegnante di Educazione Artistica d’Italia.

Qual è stato il ‘motore’ che l’ha condotta verso questa forma d’arte?

Il percorso è iniziato in tenera età alimentato da una educazione prioritaria per il bello, la cultura e l’arte.

Quando ha scoperto di possedere questo talento?

Avevo 11 anni quando provai una fortissima emozione davanti al “Cristo morto” del Mantegna in occasione della prima mostra dedicata al grande artista nel palazzo ducale di Mantova. Quest’opera segnò in modo incisivo la mia passione per l’arte.

Ha una tecnica pittorica a cui si sente particolarmente portata?

Sono poliedrica quindi abile ad improvvisare tecniche diverse con grande facilità, volutamente scelte a secondo dell’alternarsi delle mie emozioni.

Come nascono i suoi quadri?

Le mie opere nascono dalla necessità e dalla volontà di narrare frammenti di esperienze autobiografiche con interrogativi e riflessioni indotti dalla cronaca che la quotidianità mi offre.

C’è una corrente artistica in cui si riconosce?

Io non mi riconosco in una corrente artistica ma sono consapevole di essere volutamente eclettica. I miei dipinti ad un lettore attento mostrano una personale unicità nel segno e nell’interpretazione ricca di simbologia, acquisita da una significativa conoscenza della storia dell’arte. Ogni opera deve avere per me passato, presente e futuro.

Ci racconta un aneddoto legato alla sua carriera artistica?

Anni fa, in ruolo di insegnante, inviai tre opere per un concorso bandito da Lega Ambiente per insegnanti della scuola media. Vinsi il primo premio che consisteva in una discreta somma di denaro per la scuola di appartenenza. Venni premiata come migliore insegnante di Educazione Artistica d’Italia alla presenza del Presidente Scalfaro al Quirinale. Sorpresa ma felicissima andai a Roma dove ricevetti tantissimi complimenti e una grande targa. Peccato che l’assegno che mi sarebbe spettato, venne dato ad una scuola del meridione perché più bisognosa della mia … Delusa e amareggiata tornai senza opere in quanto trattenute e senza soldi … ma con un grande trofeo!!!…

L’arte non paga ma appaga. Una spina nel fianco o un segno distintivo per l’artista?

Solo pochi artisti traggono vantaggi economici dall’arte ma la ricchezza interiore che produce è così essenziale per la mia vita da farmi sentire veramente fortunata. Alterno grafica, pittura, scultura, decorazione di ceramica e stoffe, pitture murali senza preoccuparmi delle regole di mercato.

Arte e tecnologia: un ‘matrimonio’ possibile?

La tecnologia è ciò che consente all’arte di rinnovarsi e promuovere tematiche d’avanguardia.

Tre parole: colore luce e ombra; che sensazioni le procurano?

È l’insieme di un dipinto che mi procura sensazioni e per insieme intendo segno, composizione, spazio e cromatismo.

Un sogno realizzato e uno nel cassetto

Tante gratificazioni nell’aver partecipato a mostre istituzionali anche importanti, ma ciò che mi gratifica e mi fa sognare è quell’energia del fare, del creare che sviluppa e accresce l’autostima rendendo più grande l’amore per la vita. Nel cassetto resterà quel sogno che forse non ho desiderato fermamente di cui ora mi pento, cioè trarre dalla mia attività anche un vantaggio economico … spero così che un giorno i miei figli possano averne un ritorno non solo sentimentale, facendo apprezzare i numerosi lavori affinché acquisiscano più notorietà.

Ringrazio Vera per la lunga e piacevolissima chiacchierata, onorata di aver conosciuto personalmente questa donna simpaticissima, gioiosa, con un sorriso contagioso.

 

 

 

 

INTERVISTE 2015

Maria Lacchio intervista ALESSANDRO LASCARO

Alessandro

Cari Amici di “Voce all’Artista” bentornati! L’Associazione Culturale “La Voce” ha ripreso a pieno ritmo la propria attività dopo la pausa estiva e vi attende tutti, ma proprio tutti, all’inaugurazione della sua nuova sede il 10 ottobre. Ma questa non è l’unica novità; “La Voce” ha in serbo per voi tantissime sorprese! Seguiteci sul sito e spargete … “ LaVoce”.

L’Artista che “Voce all’Artista” è onorata di presentare è il pittore Alessandro LASCARO.

Alessandro Lascaro nasce a Biella il 2 maggio 1977 e sempre a Biella intraprende gli studi di geometra anche se, confessa, il suo sogno sarebbe stato frequentare un istituto d’arte. Dopo le scuole medie smette di disegnare. Attualmente abita a Cerrione, lavora come magazziniere presso una filatura tessile. È sposato ed è padre di due meravigliosi bambini.

È stata proprio sua moglie, durante la seconda gravidanza, a spronarlo a rispolverare colori e pennelli. Così a 37 anni riprende così a dedicarsi alla sua passione, con grande gioia per lui e, aggiungo, anche per noi che possiamo ammirare le sue opere.

Buona sera Alessandro, grazie di avermi concesso questa intervista; prima domanda: quando è iniziato il suo percorso artistico?

Ho sempre amato disegnare, fin da piccolo. Poi a 14 anni ho smesso. Ho ripreso a 37 anni, grazie a mia moglie che mi ha convinto a rimettermi in gioco. Alessandro4

C’è un pittore a cui si ispira o in cui si riconosce artisticamente?

Non mi ispiro ad alcun pittore specifico, ma la corrente pittorica che più mi affascina è l’impressionismo.

Cosa rappresentano i suoi quadri?

Rappresento la realtà. A modo mio, ovviamente.

Quali sono i suoi soggetti preferiti?

Principalmente mi dedico ai ritratti, ma disegno anche altri soggetti.

C’è un suo quadro a cui è particolarmente affezionato?

Sì, un’opera a cui sono particolarmente legato è la Venere del Botticelli che eseguii quando frequentavo le scuole medie.

Quale tecnica le è più congeniale?

Il bianco/nero; uso principalmente olio nero e carboncino.

La pittura è la sua unica passione o coltiva altre forme d’arte?

No, oltre alla pittura non ho alcuna altra passione.

Un sogno nel cassetto?

Vivere disegnando.

Grazie Alessandro, non ci resta che venire ad ammirare le sue opere alla prossima mostra.

 

 

Maria Lacchio intervista FILIPPO MINICAPILLI

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Filippo Minicapilli

Tempo fa, gironzolando sui social network mi imbattei in questo libro di poesie. Mi attrasse subito il titolo: “Magia di luce in versi”. Contattai l’Autore che mi chiese se fossi interessata ad averne una copia. Ovviamente sì; la poesia e i poeti sono una mia passione. Alcuni giorni dopo mi venne recapitata una busta contenente un libro formato mignon. Conosciamo tutti il proverbio ‘nella botte piccola c’è in vino buono’ e in quella ‘botticella’ c’era un prodotto eccellente. Mi incuriosirono in modo particolare gli Haiku, brevissimi componimenti poetici rappresentativi della cultura giapponese e rimasi affascinata dalle Sue poesie. Così conobbi il Poeta Filippo MINACAPILLI, persona di grande cultura e di notevole sensibilità, che si coglie nei suoi versi che evocano sentimenti, emozioni in cui ognuno si riconosce. Filippo Minacapilli, classe 1949, vive ad Aidone-Morgantina (EN). È stato docente di Filosofia e Pedagogia. Attualmente è Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta. Collabora con il quotidiano on line Etna Mare Reporter di Acireale e scrive anche per PalermoMania.it. Nella biografia che correda la silloge si legge: «Amante della metafora, ha fatto di Eros, Magia, Sogno, Bellezza i punti cardine dei suoi componimenti». Nell’intervista che gentilmente mi ha concesso scoprirete la sua capacità di osservare ed interpretare i fatti, i comportamenti umani, i sentimenti universali e di trasformarli in versi.

Racconta un po’ di te, affinché anche questi amici lontani possano conoscerti.

Sono spontaneamente attratto dal ‘bello’ in tutte le sue forme. La bellezza della Natura, di uno sguardo, di un comportamento. La bellezza artistica. La bellezza anche nella vita sociale.

Quando è iniziato il tuo percorso artistico?

Non reputavo, da studente di possedere questa vena poetica, io lo dico senza alcuna pretesa, osservo col trascorrere del tempo che il linguaggio poetico risponde appieno alla mia esigenza di esprimere stati d’animo, emozioni, sentimenti, così come di trasmettere messaggi di contrasto al male che affligge la nostra società o di stigmatizzare, a volte, la ferocia disumana che io non tollero, non concepisco, non giustifico.

C’è un avvenimento, o una persona, che ha avuto un ruolo importante perla tua attività artistica?

Questa mia ‘avventura’ artistica è nata per caso. L’incontro con una scrittrice che mi ha invitato a frequentare un ‘sito di poeti’ e, da lì, prima con forte titubanza, poi mano a mano con più sicurezza, è venuto fuori il piacere di scrivere, rinforzato in ciò dagli apprezzamenti di chi sicuramente è poeta nel senso pieno del termine.

Che cosa ti seduce della poesia?

Della poesia mi seduce il linguaggio metaforico, la capacità di giungere alla coscienza del Lettore e di poterlo in un certo senso appagare perché egli torva nel verso un proprio sentimento inespresso, un messaggio che desidera ricevere, una risposta a domande che magari non si è poste. E poi la capacità della poesia di rendere bello e universale ogni elemento; non questo sentimento, ma il sentimento; non questo dolore, ma il dolore. Il verso trasmuta il vissuto particolare nel vissuto ‘universale’.

Che tipo di complicità esiste tra il poeta e il lettore?

Il Lettore, nel leggere, non interpreta quello che io volevo dire o chi volevo cantare. Il Lettore trova se stesso. Non scrivo perché l’altro possa leggere, scrivo per una mia esigenza contingente. Per rimuovere un sentire intimo doloroso, o meglio per sublimarlo, per liberarmene, per celebrare emozioni di bellezza pura. Per ‘denunciare’ la violenza, per esaltare la forza dell’amore. Scrivo perché è un’esigenza dell’anima. Nel mentre scrivo non ho davanti a me il lettore, forse scrivo a me stesso e, nel mentre scrivo, trovo le ragioni profonde degli eventi personali.

 

Che ruolo ha il poeta in una società tecnologica?

La funzione del Poeta nella nostra società tecnologica … preservare la creatività, incantare attraverso la parola, stimolare il senso estetico, contribuire a ‘salvare l’uomo’ oltre che creare una visione unificatrice dell’essere uomo indipendentemente dalle condizioni culturali e razziali di ciascuno. E ancora, che ‘osare volare’ è magnifico. Ecco la poesia quale ‘magia di luce’ dentro l’uomo e fuori dello stesso.

Nelle tue poesie esprimi il sentimento dell’amore nella sua accezione universale, ma soprattutto si evince l’amore per la Sicilia e per la Donna. Cosa ti ha spinto a rendere ‘pubblici’ sentimenti così personali?

Non era mio intento rendere ‘pubblici’ i sentimenti descritti. Ho ascoltato una richiesta forte di amici molto vicini a me, di poeti mai conosciuti direttamente ma solo attraverso il “Pianeta dei Poeti”.

Nella seconda sezione del libro presenti una serie di haiku. Cosa ti affascina di questi brevissimi componimenti poetici?

L’Haiku, tre fotogrammi apparentemente ‘spezzati’ ma con un unico filo conduttore. Mi attrae l’immediatezza, la traduzione in immagini di attimi, di vissuti, di sentimenti. Il poterli ‘cristallizzare’. Anche qui io ne faccio spesso un uso metaforico, andando oltre lo spirito degli Autori classici per trasmettere significati di ordine politico, sociale, di denuncia, di allarme. A volte di stimolo, di incitamento, per migliorare le condizioni dell’uomo.

“Magia di luce in versi” è la tua prima pubblicazione. Hai scelto tu il titolo? Se sì cosa te l’ha ispirato?

“Magia di luce…” la prima raccolta pubblicata, a parte pubblicazioni su antologie. Il titolo… il verso poetico non solo coglie la luce, la bellezza, ma è esso stesso ‘frammento’ di luce che apre squarci, prospettive, sogni. La luce che ‘rimuove’ la miseria umana. Che consola. Che dà un senso alla vita. Luce, Amore, Libertà, veicolati magicamente dal sogno che permette all’uomo di “andare oltre i confini che ci separano dagli dei”.

Un sogno nel cassetto?

Il sogno nel cassetto…continuare a sognare.

Progetti per il futuro prossimo?

Ho già pronta una raccolta di poesie, di haiku, di aforismi che invierò a breve all’Editore.

Grazie Filippo per averci fatti partecipi della tua Arte. Sono onorata di averti conosciuto, almeno virtualmente e ti auguro buon lavoro in attesa di leggere le tue prossime poesie.

Buone vacanze a tutti gli Artisti che ci hanno fatto partecipi della loro Arte e a tutti gli Amici della “Voce”. Arrivederci a settembre.

Maria Lacchio intervista ROBERTO FRANCISCONO

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Se passando tra le bancarelle della fiera sentite un ritmico zac … zac sicuramente nei paraggi c’è Roberto Franciscono intento a tagliare a pezzettini la pietra di lavagna per costruire il tetto di una casetta in miniatura. Il nostro artista è un bravissimo costruttore di casette in miniatura, ma non casette qualsiasi, veri chalet di montagna, con tanto di fontanella, fiori alle finestre, siepi; insomma tutti i particolari che rendono unici questi capolavori, fedeli riproduzioni di case vere. Roberto è molto conosciuto in tutto il territorio, avendo partecipato a molte prestigiose mostre e manifestazioni. Ultimamente, oltre alle casette potete ammirare anche ponti e torri da lui costruite nei minimi dettagli.

Quando è nata l’idea di costruire casette in miniatura?

Questa idea è nata anni orsono vedendo un signore che costruiva dei cascinali.

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Abbiamo avuto modo di vedere le tue creazioni in molte prestigiose esposizioni. Come nascono questi piccoli capolavori?

Queste piccole opere nascono dal piacere di vedere come in passato gli uomini sono riusciti a costruire con pochi mezzi e poveri materiali delle cose che oggi non sarebbero più in grado di fare, nemmeno con le più moderne tecnologie.

Le tue casette sono riprodotte nei minimi particolari; quanto tempo in media impieghi a costruirne una?

Il tempo di costruzione varia in relazione alle difficoltà che incontro durante la costruzione e comunque al tempo …. È meglio non pensarci.

Che materiali usi?

Uso pietra di lavagna e scarti di legno; colla e muschio sintetico

… e tanta tanta abilità e passione. Come scegli i tuoi soggetti?

La costruzione di ogni singola casetta viene in base all’ispirazione del momento.

Ad ogni creazione è collegata una fotografia; sei appassionato di fotografia?

Sì, mi baso anche su fotografie; anche se non sono un appassionate, mi piace molto fare foto.

Le tue creazioni si ispirano a costruzioni tipicamente montane, è il tuo modo di esprimere il tuo amore per la montagna?

Tutto questo nasce anche perché mi piace molto la montagna e la storia e la vita di queste popolazioni.

Ricordi la tua prima casetta?

La mia prima casetta fu appunto un cascinale.

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I tuoi prossimi progetti?

Sto costruendo un piccolo alpeggio della Val d’Ossola.

Con un taglierino Roberto sfoglia un pezzetto di lavagna e … zac lo taglia in un piccolo rettangolo che va a posare sul mucchietto che attende di essere incollato con infinita pazienza alle piccole travi del tetto della casetta che stava costruendo quando l’ho interrotto con le mie domande. Mi fermo ancora un momento ad osservarlo mentre lavora, affascinata dall’abilità con cui lavora. Lo ringrazio per avermi concesso un po’ del suo tempo; lui alza gli occhi dal suo lavoro, mi sorride e … zac taglia un altro pezzetto di pietra….unnamed (6)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maria Lacchio intervista GIUSEPPINA SCAVAGLIERI

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È un onore per l’Associazione culturale “La Voce” avere l’opportunità di intervistare GIUSEPPINA SCRAVAGLIERI, artista di grande caratura; una carriera di pianista costellata da tanti successi e un palmaresse di tutto riguardo, anche se, e sono parole sue, la sua missione è quella di trasmettere l’amore per la musica alle nuove generazioni. Pertanto, anche se scontata, la prima domanda che le rivolgo è quando è iniziato il suo percorso artistico e per restare in ambito musicale che cosa le ha dato il la

Devo moltissimo a mia madre che è stata una figura fondamentale e ha contribuito molto a quello che sono adesso. Non le avrei mai chiesto di mandarmi a scuola di musica; fu lei a prendere questa decisione. A lei sarebbe piaciuto imparare a suonare uno strumento, ma non ne ebbe la possibilità perché i tempi erano quelli che erano. Così decise che se avesse avuto una figlia avrebbe avuto piacere di farlo fare a lei. Così, a cinque anni, mi mandò a lezione da una ragazza che studiava pianoforte al conservatori, nel paesino in Francia dove la mia famiglia era emigrata. Non sapevo né leggere né scrivere, ma riconoscevo le note; inoltre la mia insegnante aveva notato che avevo orecchio; insomma la musica non era una cosa da me così lontana. Cominciai a suonare con lei le prime cose.

Poi, negli anni del boom economico, sollecitati dai parenti tornammo in Italia e ci stabilimmo a Torino dove mio padre trovò lavoro alla Fiat. Mio padre era elettricista, aveva già una sua attività, ma decise comunque di rientrare in patria. I parenti si occuparono anche di trovarci casa e mia madre, appena terminato di sistemare i mobili, cercò un insegnante di pianoforte. Sparse la voce nel quartiere e così seppe che vi abitava una insegnante che aveva studiato addirittura con Gorini, il pianista del duo Gorini-Lorenzi, un famoso duo pianistico ci Venezia, infatti questa signora era veneta. Così mia madre mi mandò da lei. Praticamente non ho mai interrotto lo studio, non sono stata tanto tempo senza suonare. Secondo la mia insegnante avevo delle qualità e così arrivò a casa il pianoforte che era un mobile antichissimo, però intonato, non proprio una rovina completa. Durò più o meno un anno perché mia nonna mi regalò un pianoforte nuovo, un bel Petrof. Quando arrivò a casa fu ovviamente una festa. All’epoca non è che avessi una passione smodata per la musica; a sette anni avevo voglia di giocare come tutti i bambini, ma mia madre mi fu sempre vicina, con infinita pazienza mi seguiva negli esercizi. Alla fine credo che se uno combina qualcosa è perché uno dei genitori o entrambi se possibile, partecipa alle sue attività e un po’ perché non si vuole deludere e un po’ perché non viene lasciato solo, come purtroppo accade adesso magari non si vuole forzare, invece si dovrebbero dare delle direttive precise.

Un aneddoto di quel periodo ce lo vuoi raccontare?

Sì, allora frequentavo una scuola elementare dove si faceva il tempo prolungato; dopo la mensa si giocava e poi si facevano i compiti a scuola. Io non facevo il tempo prolungato perché mamma era a casa e non c’era motivo che mi fermassi. Un giorno, forse perché avevo voglia di giocare, mi fermai dimenticandomi che quel pomeriggio avevo lezione di musica e mia madre venne a prendermi. Questo ricordo è ancora molto vivido.

Lo studio della musica che richiede tanto impegno e tanto sacrificio l’hai vissuto come un obbligo?

Dopo gli anni dell’infanzia, quando mamma chiedeva se avevo fatto gli esercizi, voleva sentirmi suonare, non l’ho più vissuto come un qualcosa di imposto, ma è cominciato a piacermi. È stato qualcosa che pian piano è entrato a far parte di me e, contrariamente a quanto sovente succede, nel periodo dell’adolescenza. Preferivo suonare che fare i compiti, anche se richiedeva molto più impegno, attenzione e concentrazione. Al liceo c’era un’insegnante di lettere, ci faceva latino e italiano, che aveva saputo che suonavo il pianoforte e aveva un atteggiamento impressionante. Sai cosa significa se dici a scuola che suoni uno strumento? Ti fanno la guerra. Invece questa signora, che per noi era un modello, molto aperta, non l’insegnante bacchettona, a cui piaceva molto la musica, aveva a casa un pianoforte, mi sosteneva; nell’intervallo mi chiedeva cosa studiavo e questo suo interessamento mi riempiva di orgoglio, perché dagli insegnanti avevo avuto la guerra. In uno degli anni del liceo, mi propose di andare a trovarla a casa sua perché lei aveva una bimba piccola che non voleva suonare il pianoforte. Andai da lei e così è iniziata la mia carriera di insegnante. Ho scoperto che trasmettendo le cose che mi piacevano ad altri potevo guadagnare qualcosa per comprarmi le mie cosette, tipo il rossetto, lo smalto, cosine da adolescenti. Ho iniziato a insegnare giovanissima, avevo quindici anni e la mia prima allieva, non la bimba dell’insegnante, aveva sei anni ed era figlia di una signora che aveva tre figli e aveva saputo che davo lezioni. La passione per l’insegnamento è sempre stata molto forte e mi sono resa conto che non facevo fatica a farmi seguire perché è come se si calamitassero questi allievi. Ancora adesso è così, sai, ho allievi in conservatorio che non studiano niente, ma vengono puntualmente a lezione perché a loro piace venire in classe; piace l’atmosfera che si è creata; non c’è tra di loro “tu sei più bravo, tu fai schifo” c’è un tipo di competitività sana. È un bel gruppo molto unito. Siccome riesco a valorizzare ognuno di loro per vari aspetti, nessuno di loro si sente sminuito in confronto ad un altro, anche se si vede benissimo se uno è più bravo, ma non si sentono trattati diversamente e loro stessi non si sentono il brutto anatroccolo, perché, anche questo l’ho imparato agendo al contrario di come avevo visto fare. La mia insegnante, Maria Golia, famosissima non solo a Torino in conservatorio ma in tutta Italia, una donna straordinaria; se c’erano premi da portare via, sicuramente erano i suoi allievi a vincere, c’era una specie di antagonismo tra lei e la Palmieri di Verona che andava fortissimo anche lei aveva degli allievi bravi, però dal punto di vista umano aveva qualche pecca perché non aveva nessuna delicatezza. Non è mai bello sentirsi apostrofati davanti a tutti, ma soprattutto quando si è giovani questa cosa ti ferisce. Quando assistevo a queste cose non mi piaceva affatto e mi dicevo ‘io non sarò così, perché non voglio esserlo. ’Il desiderio di insegnare in conservatorio è scattato la prima volta che ci sono entrata perché avevo preparato privatamente l’esame di solfeggio. Avevo undici anni, alla fine della prima media avevo preparato questo esame. Mi è sembrato un tempio e mi sono detta ‘io verrò a insegnare qua’ e ho costruito tutto in modo da realizzare questo desiderio. Io ho due sogni nel cassetto e questo l’ho realizzato dopo un lungo peregrinare tra i conservatori d’Italia. Devo dire che mi ritengo veramente fortunata dal punto di vista professionale, anche se ho sacrificato tantissimo della mia vita privata. Mi rendevo conto che non potevo avere una vita sociale come gli altri. Sentivo le mie amiche che andavano a ballare, avevano il fidanzatino, impensabile, e io non riuscivo mai ad essere del gruppo, anche perché lo studio del pianoforte ti porta ad avere una disciplina molto rigida; prima il dovere e poi il piacere te lo inculcavano già da piccolissimi e poi non riuscivi nemmeno a divertirti perché ti sentivi in colpa. E comunque se devi studiare devi studiare. Ho rovinato un sacco di ferie ai miei anche perché se c’era il concorso a settembre, dovevo studiare ad agosto. E comunque, anche dopo il diploma se avevo un concerto dovevo studiare e anche adesso non riesco a ‘staccare’ per lungo tempo.

Che cosa ricordi del tuo primo concerto?

Alla mia prima esecuzione in pubblico avevo già dato l’esame del quinto anno, quindi avevo già suonato davanti a una commissione, ma l’emozione era comunque forte. Ma la prima volta avevo sette anni. La scuola che frequentavo aveva diramato un invito per una serata di beneficienza. Avevano chiesto chi sapeva fare qualcosa, scenette, cose così. Eravamo in due che suonavamo il pianoforte, tra l’altro allieve della stessa insegnante. Mia madre mi fece confezionare un abitino color carta da zucchero dalla sarta e mi portò dal parrucchiere. A sette anni era un avvenimento. La sera in cui ho suonato, la ragazzina che suonava con me non aveva il pezzo a memoria, io invece sì. Il padre della ragazzina mi avvicinò mi disse: “Quando suoni tu Pasqualina, si chiamava così, volta le pagine a te, e tu le volti quando suona lei”. Io risposi che non era necessario perché sapevo il pezzo a memoria. Ma lui insistette e così suonai con lo spartito davanti che non mi serviva. Ad un certo punto, mentre suonavo, andò via la luce, ma io continuai a suonare. Alla fine ricevetti tantissimi applausi proprio perché non mi ero interrotta. Alla fine si è capito lo stesso che lo sapevo a memoria.

C’è una giustizia divina. Senti, che cosa ti seduce della musica?

Le emozioni che mi comunica. Ascoltare la musica per me significa viverla sulla pelle, cioè vivere qualcosa di veramente bello; la musica è la bellezza in se stessa più di qualunque altra manifestazione artistica; vedere un bel quadro lo apprezzo ma non riesce a stimolarmi a pelle la stessa emozione.

Hai un autore preferito?

No, li amo tutti; ci sono quelli che preferisco suonare, Bach, che mi ha formato moltissimo, Mozart, Beethoven, non saprei quale scegliere tra questi tre. Amo molto suonare Litzt perché lo trovo molto pianistico, esaltante e vicino alla mia personalità. Io credo che la musica sia in diretta relazione con Qualcuno lassù. Non si spiega in altro modo la creazione di certe opere. A proposito di Mozart mi riferisco al “Requiem”. Penso che mentre lo componeva le sue dita fossero guidate da Qualcuno di non umano. Così pure per Beethoven.2 Io sono credente, mi sembra proprio che ci sia questa diretta comunicazione in qualche caso, perché la bellezza di certa musica non è spiegabile in altro modo. In generale la musica mi piace tutta, anche nella musica contemporanea ci sono delle buone opere. Recentemente ho ascoltato delle bellissime composizioni per orchestra di Alberto Colla; comunica comunque qualcosa con un linguaggio che non è così ostico e incomprensibile. La musica d’avanguardia ha avuto diversi percorsi, essendo musica sperimentale, e c’è stato un periodo abbastanza lungo di transizione in cui non sono state fatte grandi opere d’arte; adesso c’è di nuovo il desiderio di usare la musica per comunicare qualcosa. Apprezzo moltissimo Alberto Colla come Gian Luca Cascioli, grande pianista e anche molto bravo come compositore. Ha scritto cose molto belle per pianoforte, si capisce che non sono a caso, ma c’è dentro un lavoro, una ricerca, le trovo molto interessanti, mi piacciono molto.

Progetti attuali?

Una master class a Lanzo Torinese dal 12 al 19 luglio. Per quanto riguarda la mia attività artistica, approfondire alcune opere, riprendere alcune sonate di Beethoven; alcune di quelle che sono state suonate alla maratona le ho suonate anch’io. E poi leggere, studiare altre cose, altri progetti.

E il progetto dei compositori piemontesi?

Quello è un concerto che ho già realizzato. Volevo mettere in risalto le musiche e non solo del territorio piemontese. Ho fatto delle ricerche sui compositori, anche per voce, e ho scoperto il “Bacio” di Arditi e altre cose di questo autore, Gastaldon l’autore di musica proibita. Ho scoperto un bel po’ di curiosità. Ho cercato delle cose per violino e ho inserito Pugnani Kreisler il un famoso preludio. In questo concerto ho inserito una successione di fiabe del canavese. Il Piemonte è molto misterioso. D’altra parte Torino fa parte del Triangolo Bianco e anche di quello Nero. Torino esoterica è carica di suggestione. Si pensi al grande personaggio Gustavo Rol. Volevo ideare qualcosa per mettere in risalto tutto ciò. Poi ho integrato il concerto con un capriccio di Paganini. Il concerto è stato eseguito a Lanzo, dove c’è il ponte del Diavolo e la sua leggenda è conosciuta in tutto il mondo.

Il concerto è stato promosso dalla tua associazione?

Sì è stato promosso da Musicaeartisti, tutto attaccato.

Cosa pensi della tecnologia applicata alla musica?

Se per tecnologia intendi il pc di casa lo considero una grande possibilità, soprattutto per i giovani. Mi ricordo che quando studiavo io, dovevo comprare i vinili e costavano parecchio perché i grandi compositori incidevano per case discografiche di pregio. Adesso vai su You Tube e trovi di tutto, e anche i social, fb più di tutti sono utilissimi. Purtroppo i ragazzi li utilizzano poco, ma è un’arma vincente. Io ho un gruppo ‘classe di pianoforte giuseppina scravaglieri’ attraverso il quale comunico con i miei allievi, per consigliare l’ascolto di un concerto o lo studio di un pezzo. A me piace prendere tutto ciò che si può prendere con lo scopo di divulgare la musica e portarla agli altri, ritengo che questa sia la mia missione.

Hai detto che hai due sogni nel cassetto; uno l’hai realizzato e l’altro?

 

L’altro è un po’ più difficile da realizzare perché ci vuole veramente molto denaro. Mi piacerebbe trovare una specie di cascinale o un palazzo antico per farne una scuola di alto perfezionamento, utilizzando anche le camere per dormire perché magari si può organizzare una settimana con un grande pianista o un artista importante in modo che i ragazzi possano avere la possibilità di vivere ventiquattro ore al giorno per assorbire il più possibile la musica si un grande artista. E poi devono esserci aule attrezzate, non solo l’aula di pianoforte, ma impianti di registrazione, perché è molto importante riascoltarsi, una sala con uno schermo per poter vedere le registrazioni di artisti e poi la struttura può essere utilizzata coinvolti anche da altri. Insomma. È un sogno.

Io ti auguro di realizzare questo bellissimo sogno, magari in formato ridotto. Mai porre limiti alla Provvidenza.

Giuseppina ti ringrazio per averci coinvolti nel tuo amore per la musica.

Maria Lacchio intervista il musicologo ATTILIO PIOVANO

Attilio Piovano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Attilio Piovano, torinese ‘doc’ musicologo, musicista, insegnante di Storia della Musica al Conservatorio Cantelli di Novara collabora con la Scala, con la RAI, con il Festival MiTo, le Settimane Musicali di Stresa, il Teatro Regio, il Politecnico tanto per citarne alcuni; l’elenco sarebbe troppo lungo E’ stato direttore artistico dell’Orchestra Filarmonica di Torino. In qualità di critico musicale collabora con il “Corriere del Teatro”, scrive per “Torinosette” magazine de “La Stampa”, “Amadeus” … e numerose altre collaborazioni che, a nominarle tutte, richiederebbero tantissimo tempo. Infine, scrittore; ed è proprio su Attilio Piovano scrittore che il Maestro mi ha gentilmente concesso questa intervista.  

 – In quanto musicologo, fa parte del tuo lavoro scrivere recensioni, programmi di sala, collaborazioni con riviste del settore, saggi; poi, ad un certo punto, Attilio Piovano musicista, musicologo, giornalista, insegnante è diventato Attilio Piovano musicista, musicologo, giornalista, insegnante e scrittore. Hai capito che volevi scrivere in un momento particolare della tua vita? 

 Gli anni del Liceo, insomma gli anni dell’adolescenza: ecco sono quelli gli anni in cui si gioca tutto. Avevo un insegnante di lettere con un ego grande come una casa, si piaceva, si parlava addosso, declamava i suoi amati scrittori e non aveva stima di nessuno fuorché di se stesso. Di noi allievi non aveva alcuna considerazione, di me poi in particolare credo che non gliene importasse nulla. Mi consegnava i compiti in classe di italiano con un misto di fastidio e di nausea, come quando ci si trova dinanzi ad un cibo avariato o qualcosa del genere… si limitava a poche annotazioni, come a dire che non c’era nulla da fare. Per lo più i voti oscillavano tra un sei e mezzo e un sette meno meno, al più un sette e mezzo (credo non mi abbia mai affibbiato un otto). Immagino le sue votazioni fossero invero del tutto rispondenti al valore modestissimo dei miei scritti, anzi forse erano un filino sovradimensionate. 

E a me in tutta franchezza andava bene così, dacché non me ne importava nulla di scrivere di donneangelicate e disepolcrifoscoliani, di valorieticimanzoniani né di sensodeldoverenellavitacivile e si potrebbe proseguire a lungo nell’elenco di luoghi comuni ci cui sono fatti i famigerati temi di liceo. A me importava della musica, per conto mio stavo scoprendo che dietro una partitura c’è sempre un uomo, spesso una donna, ci sono dolori e amori, entusiasmi e delusioni. Leggevo le prime biografie di musicisti e una marea di saggi musicologici. E così ho cominciato a maturare il desiderio di ‘spiegare’ (a me stesso innanzitutto) il senso di un brano musicale, che sia una Sonata di Brahms  o una Sinfonia di Mahler e via elencando. Nel frattempo erano arrivati gli anni dell’università dove ho incontrato ben altre e più significative figure di riferimento e allora corsi monografici intriganti e pieni di stimoli veri e forti. Ma anche le ore passate davanti alle bancarelle a sfogliare volumetti economici Feltrinelli, Einaudi, Bur, Sellerio dalle copertine magnifiche ecc. ecc. E le letture entusiasmanti non più imposte dal professore-narciso, ma scovate per libera scelta. Molto Pavese e Il giardino dei Finzi Contini, l’Antologia di Spoon River e i russi, Natalia Ginzburg e gli Esercizi di stile di Quenau. 
Così ho iniziato a scrivere cose tecniche, dunque programmi di sala e guide all’ascolto, sforzandomi di acquisire i ferri del mestiere. E per una quindicina d’anni almeno ho scritto con taglio saggistico e stop (compresi pallosi articoli-saggi dai titoli improbabili e cruschevoli, per la serie i guasti del prof liceale ancora proiettavano i loro mefitici effetti, sull’onda lunga dei decenni). Una domenica pomeriggio, quando ancora studiavo, avevo di getto buttato giù mezza paginetta di un racconto. Poi lo abbandonai, non mi sentivo affatto tagliato, mi pareva frivolo, quasi una perdita di tempo. Un giorno, a metà anni ‘90, all’improvviso (o quasi, perché in realtà ciò che accade in apparenza all’improvviso invero è sempre frutto di lunghe incubazioni) ho pensato che scrivere di musica con una dimensione narrativa fosse la cosa più naturale e ovvia di questo mondo. Sono andato a riprendermi quella mezza paginetta di molti anni prima ed ho scoperto che avevo bell’e pronto l’attacco del mio primo racconto, dedicato a Mozart di passaggio a Torino. Molto autobiografismo, mille ingenuità, velleità, vanità a gogo e molto di più, ma insomma il salto del fosso era compiuto. Mi hanno anche pubblicato quel racconto, e da lì… dicono che errare humanum est… il grave è quel che segue, perseverare, ed io (ahinoi) ho perseverato… e persevero tuttora…
– In che situazione ami scrivere i tuoi libri? Di notte, di giorno, in una stanza particolare, insomma come nascono i tuoi romanzi?
La notte, più ancora la sera, è sempre stata per me un momento magico e propizio al lavoro. Il telefono tace, i rumori si attutiscono, la luce artificiale facilita la concentrazione… mi rendo conto che sto allineando una quantità di luoghi comuni al limite dell’indecente… però è così. 
Come nasce un racconto non è facile da descrivere. Per quanto banale, ovvio e scontato possa sembrare (quanti sommi scrittori si sono cimentati con tale fatidica domanda ed io chi sono per saper dire qualcosa di originale…) spesso tutto nasce da un dettaglio: una foto, un incontro, un viaggio, il ricordo preciso di un viaggio, un’atmosfera, un profumo o un odore (su di me odori e profumi, insomma le sensazioni olfattive hanno sempre agito come stimolo potentissimo… ma se lo scrivi sa di quello che se la tira, che da qui ad un passo cita Proust e la famigerata madeleinette…). Il più è concentrarsi su qualcosa di forte e ben delineato quanto a sensazione, a stimolo creativo. Il resto è mestiere: la costruzione di una storia, l’articolazione di un percorso e via dicendo…  E poi – altro luogo comune – la scrittura detta le sue leggi, sai che direzione prenderà il racconto, certo, non sei così incosciente da scrivere a ruota libera e basta, sai dove arriverai, ma poi come ci arriverai e con quali percorsi non è così importante e non è affatto detto sia chiaro fin dall’inizio. Non so se riesco a spiegarmi, pur tuttavia chiunque abbia provato a scrivere una storia credo abbia perfettamente presente cosa intendo…
Quanto al luogo fisico in cui scrivere… boh… ho sempre diffidato di coloro che sostengono di poter (saper) scrivere solo inquella determinata condizione (ricordi coloro che dicevano anni fa di utilizzare solo penne stilografiche di un certo tipo, solamentedeterminata carta… certi insuperati e insostituibili block-notes su cui la penna fluisce…) sono tutte banalità da romanzo d’appendice, balle da rotocalco. La realtà è che se hai qualcosa da dire lo puoi scrivere tempestando furiosamente una tastiera di pc o scrivendo su un pezzo di carta qualsiasi… preferisco la prima ipotesi, perché avendo una grafia illeggibile se scrivo a mano devo decifrare poi a lungo ed è un lavoro penosissimo e defatigante, mi capita quando prendo appunti a teatro o durante un concerto e il buio peggiora ancor più il disordine grafico della scrittura e poi mi tocca penare per capire che cosa caspita avevo annotato… prima o poi mi porterò un bel tablet in sala, peccato che lo schermo azzurrino dia fastidio a qualche vicino… ci si abitueranno…
– Per descrivere i personaggi dei tuoi romanzi ti ispiri alla vita reale o sono personaggi di fantasia?
La realtà è un meraviglioso fondaco, basta guardarsi attorno… il mondo è pieno di risorse, supera di gran lunga la fantasia. Poi però partendo da un dato reale per me è determinante fantasticare, immaginare, nella mente, persone, luoghi, descrizioni di situazioni, dettagli… ho sempre fantasticato un mucchio, fin da bambino, non avevo fratelli e sorelle con cui dialogare… raccontare è una delle avventure più belle della vita, descrivere è ancora più affascinante. Da ragazzino amavo molto le auto (quale ragazzino nato sul finire degli anni ‘50 del ‘900 a Torino non amava le auto?), le osservavo, le confrontavo e nella mia mente le ‘descrivevo’, me le raccontavo e mi lasciavo guidare dall’istinto (ogni auto ha un suo rumore, una sua musica, e un suo odore, ovvero un suoprofilo olfattivo, metafisico in grado di stimolare la fantasia). Ecco da qui occorre partire, il resto è… mestiere… 
– Come costruisci i discorsi ed i comportamenti di un personaggio di fantasia?
…eh, i discorsi… i dialoghi sono la cosa più difficile da ‘rendere’. C’è sempre qualcosa di eccessivamente ‘letterario’ in un dialogo. L’unica cosa da fare è scrivere come ti viene poi provare a leggere a voce alta il dialogo stesso, come se lo avesse scritto un altro, con impietoso e ferreo senso critico, immaginando di essere nella pelle dei due interlocutori. Appena ti viene da ridere (in genere accade entro la prima riga) e pensi che realmente nessuno potrebbe pronunciare quella frase ad alta voce… beh lì è ora diriscrivere poi riscrivere e ancora riscrivere. In genere di un dialogo sottoposto a tale ‘cura’ sopravvivono un paio di parole, forse tre. Il resto finisce nella spazzatura, pardon nel cestino del pc…
– I tuoi primi due romanzi “La Stella Amica” e “L’Aprilia Blu” sono ambientati a Torino. La città ha un ruolo importante?
Fondamentale, assolutamente fondamentale: per le sue suggestioni, le sue atmosfere, i suoi profumi (i tigli in primavera e l’odore delle foglie bruciate sotto le rotaie dei tram in autunno, ma anche l’acqua marcescente nelle anse del Po o il profumo della cioccolata nei blasonati bar del centro storico, la legna bruciata in una delle strade della collina). Una città ha i suoi colori e le sue atmosfere, a Torino spesso di atmosfere molto parigine si tratta… penso a largo IV Marzo ed a piazza Maria Teresa. Però poi non si può continuare a scrivere della propria città. Ci sono mille altre città che si possono amare cercandovi stimoli per la scrittura, o per esserci stati ed aver provato emozioni intense (per me è il caso di Venezia) o per averle sognate sui libri, le guide di viaggio ed altro… Sì, la città per me è un luogo importante, per i suoi esterni, ma anche i suoi interni… e poi c’è la collina e c’è la montagna e, per quanto contraddittorio possa a apparire, c’è l’acqua, ed io non so nuotare… l’acqua ha sempre esercitato su di me un fascino particolare, un’attrazione-repulsione, amo le città dove l’acqua gioca un ruolo di rilievo (e allora, non ti sembri provocatorio, ma il Po a Torino è uno degli elementi più importanti, pensa alla pittura di Paulucci, alle tele di Gigi Chessa e ai racconti di Arpino dove acqua e nebbia paiono talora indistinguibili). 
– Nella tua carriera di scrittore non ti sei limitato ai romanzi, ma hai dimostrato un notevole feeling con il racconto breve, mi riferisco a “Il Segreto di Stravinskij”. In quale preferisci cimentarti?
…posto che carriera è una parola grossa, imbarazzante, diciamo percorso? Ti spiace… E allora la dimensione del racconto breve – confesso – mi è più congeniale, quanto meno m’illudo (e lo dico a me stesso) che sia più facile misurarvisi. Forse non è affatto così, però la sensazione è questa. Anche in tal caso: raccontare un musicista ‘inventando’ una storia partendo da elementi reali (come nella raccolta di racconti che hai citato) è tutt’uno con una consuetudine ormai ultra decennale. Un particolare è sufficiente, e via con il racconto: Ravel e le sue notti insonni, le sue tazze di tè, o Borodin e la neve a San Pietroburgo, Mendelssohn immaginato nella mediterranea notte italiana. Piazzolla e i malfamati locali di Buenos Aires (oggetto di racconti ancora inediti…) e avanti di questo passo… Sì, in assoluto – direi – il racconto breve è quello in cui mi sento maggiormente a mio agio, beninteso questo non ha nulla a che vedere coi risultato oggettivi, forse pessimi… boh… ai lettori… (attuali e non certo posteri) l’ardua sentenza… si dice così? 
– Il tuo ultimo romanzo pubblicato “Sapeva di erica, di torba e di salmastro” ha un finale ‘diverso’ dai primi due. Non pensi che i lettori potrebbero trovare ‘difficile’ condividerlo? O, se preferisci, più in generale, che tipo di rapporto può nascere tra il lettore e lo scrittore?
Questa è una domanda davvero difficile: fammi la domanda di riserva, ti prego, oppure dammi un aiutino… Al di là degli scherzi… Che tipo di rapporto può nascere tra scrittore e lettore o viceversa, come proponi tu: beh, posso dirti che tipo di rapportovorrei che si instaurasse. Per quanto banale possa essere, l’aspirazione è che il lettore possa ‘vibrare’ all’unisono con quelle stesse emozioni dalle quali è partito chi scrive. Questo credo sia il premio migliore per chi scrive: incontrare un lettore e sentirsi dire: quella pagina, quelle dieci righe mi hanno dato emozione (almeno una volta nella vita – giuro – può capitare, e pazienza se il lettore, la lettrice magari è un’anziana prozia…), e a ben guardare non importa nemmeno se l’emozione è dello stesso segno di quella provata dall’autore, a ben pensarci l’importante è l’emozione stessa… 
– Pensi che i social network, la versione moderna del passaparola, siano un ‘caffè letterario’ illimitato e quindi abbiano potenzialità incredibili oppure ti sembrano limitanti o peggio, pensi che banalizzino il discorso letterario?

Non so rispondere con certezza…. sono in una fase di ricerca…. mi guardo intorno con curiosità e mi muovo con (alquanta) circospezione al tempo stesso. Penso che demonizzare facebook e compagnia bella sia altrettanto stupido e deleterio che demonizzare altre cose, al tempo stesso illudersi che siano la panacea universale è fuorviante. Penso che i social network siano un’arma a doppio taglio: possono diventare una palestra importante se davvero chi scrive ha qualcosa da dire, se commenta con un minimo di senso critico, se si fa coinvolgere e se cerca di coinvolgere gli altri; il rischio di banalizzare è dietro l’angolo, ma il rischio è insito in qualsiasi rapporto umano, in un’intervista radiofonica, in una conservazione tra intellettuali che si parlano addosso eccetera, eccetera. 

Vale però la pena di correre il rischio e pensare che i social network siano un mezzo per rilanciare l’amore per la scrittura e la lettura. Mettersi in gioco, questo è importante, correre il rischio che chi ti legge abbia il coraggio di metter in pasto all’universo delweb affermazioni raffinate e finemente filosofiche del tipo: «caro scrittore, quanto affermi è una colossale cagata» (perdona il francesismo); e lo Scrittore con al S maiuscola sarà bene che scenda dal piedistallo e si metta su questa lunghezza d’onda. Certo, l’importante è motivare perché una frase ti pare scipita o meno…, perché una cosa non ti è piaciuta, e poi (da parte di chi ha ricevuto una critica motivata) occorre accettare che tanti altri lettori siano disposti ad aggiungere like a chi per primo ha gettato la pietra nello stagno… forse sto delirando, boh… Il fatto è che il mondo dei social è una realtà troppo in evoluzione, troppo liquida come si dice oggi, una sorta di salotto universale in cui chiunque si fa gli affari di tutti, ecco: quando impareremo a  scremare e a non dire la prima stupidaggine che ci viene in mente, seguiti da decine di pigri e sonnolenti ‘mi piace’ forse anche i social potranno cambiare le sorti di un libro, un racconto, una recensione… boh chissà…
…aggiungo, i social network sono come una grande piazza dove in teoria ognuno dice e scrive o strilla quello che caspita gli pare, il problema è che di solito non ci si ascolta, non ci si legge insomma non ci si relaziona gli uni con gli altri e ognuno parla per se stesso. E invece il rapporto tra lettore e scrittore funziona se è una relazione, appunto, un dialogo. Ti pare?
– Nella società odierna la figura dello scrittore riesce ancora ad avere una sua funzione specifica?
Altra bella domanda: mi verrebbe da dire quello che con un po’ di autoironia penso da tempo: chi scrive (in senso creativo, artistico, estetico, non già giornalistico) è sostanzialmente inutile alla società, poi però, mi rendo conto: lo dico un po’ per provocazione e un po’ per potermi smentire subito dopo. In fondo, lo puoi bene immaginare, sono convinto del contrario, e allora – riprendendo quello che si diceva sopra – lo scrittore ha un senso se risveglia nel lettore le emozioni che già in lui sono insite, vale per qualsiasi forma di arte, un film, un quadro… in fondo ci emozioniamo là dove già siamo inclini, e se un film, per dire, è lontano dalla nostra sensiblerie potrà essere magnifico, tecnicamente ineccepibile, ma non ci emozionerà mai… se invece risveglia in noi certe emozioni è perché già le avevamo dentro, già potenzialmente eravamo in grado di viverle: l’artista (in questo caso il regista, gli attori, il direttore della fotografie eccetera) non hanno fatto altro che dare forma alle nostre emozioni. Penso all’indimenticabile Un cuore in inverno di Claude Sautet. Può andare come risposta?  
– Un’ultima domanda: come ti senti quando finisci di scrivere un racconto o un romanzo; felice di aver concluso o provi una punta di tristezza?
Provo un curioso mix di sensazioni, un senso di sollievo, per aver terminato quanto mi ripromettevo (ma devo impormi di porre davvero la parola fine e non continuare a rileggere, limare, rivedere, sostituire eccetera eccetera, altrimenti è il tormento, dacché qualsiasi testo è sempre perfettibile) e nel contempo provo un senso di vuoto perché il gioco è finito, l’avventura è conclusa. L’importante è già essere oltre, proiettati sul futuro, su una nuova storia … come nella Leggenda del pianista sull’oceano di Tornatore, o meglio come in Novecento di Baricco… ricordi? L’importante è avere una storia, una nuova (buona) storia da raccontare. Il resto è… mestiere.
Grazie Maestro, aspettiamo la prossima storia.

 

 

 

Per gentile concessione di Gabriele Martelozzo che ha intervistato

ALESSANDRO AVERONE

Il suo futuro poteva essere quello di medico dentista, invece è diventato attore. Alessandro Averone, ciglianese di 33 anni, una volta concluso il liceo classico anziché intraprendere gli studi universitari di medicina, ha scelto di dare ascolto al cuore imboccando la strada della recitazione. Forse sarebbe stato un ottimo dentista, questo non lo sapremo mai, di certo sappiamo che come attore teatrale, cinematografico e televisivo è bravo. Difficile condensare il suo curriculum vitae in poche righe, infatti, dopo aver ottenuto il diploma di attore all’accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico di Roma nel 2000, in teatro ha interpretato diversi ruoli da protagonista in pièce come «Romeo e Giulietta» di Shakespeare diretto prima da Maurizio Scaparro (2000-2002, teatro Eliseo di Roma e tournée italiana) e successivamente da Gigi Proietti (2003-2005, Globe Theatre). Poi è stato diretto da Giuseppe Patroni Griffi in «Metti, una sera a cena» (2002-2003, teatro Eliseo), da Cesare Lievi in «Fotografia di una stanza» (2005-2006, teatro Stabile di Brescia) mentre, per la regia di Walter Le Moli, è stato interprete in «Changeling» (2007, teatro Stabile di Torino) e in «Sogno di una notte di mezza estate» di Shakespeare (2008, teatro Due di Parma). L’elenco dei suoi impegni teatrali è ancora lungo, ma tra tutti va ricordato assolutamente lo spettacolo di 12 ore (già, proprio 12!) de «I Demoni» di Fëdor Dostoevskij, per la regia di Peter Stein, portato in giro per l’Italia, l’Europa e gli Usa con grandissimo apprezzamento da parte di pubblico e critica. A tutto ciò vanno aggiunte svariate apparizioni in film per la televisione e per il grande schermo (tra cui «Riprendimi» di Anna Negri). La sede dell’Associazione Popolare di Santhià è stata la bella cornice per la chiacchierata che abbiamo fatto con lui.

Cosa ti ha spinto ad entrare nel mondo della recitazione?

Il primo approccio è stato per divertimento. Durante le scuole superiori avevo seguito un corso ed era stimolante, si lavorava sull’improvvisazione, sulle situazioni, non c’era uno spettacolo da preparare basato su un testo. Da bambino non ho mai pensato di farlo come professione. In realtà come studi ero indirizzato verso medicina, dentista, essendo mio padre medico, ma non ho mai avuto forzature in famiglia per seguire questo percorso anzi, mio padre mi ha sempre detto che «lavorare è faticoso e se non si fa una cosa che piace è la fine». Dopo aver conseguito il diploma di maturità non avevo ben idea di cosa volessi fare, così è seguito un provino all’accademia Silvio D’Amico a Roma. È stato in quel frangente, proprio quando sono salito sulla pedana e ho iniziato a recitare mi è esplosa dentro la sensazione che era ciò che volevo fare. Quando mi hanno scelto per l’accademia ho capito che mi giudicavano positivamente e che, oltre ad essere una cosa che mi piaceva fare, avevo le carte per riuscire. Per certi aspetti credo di aver scelto questo mestiere proprio perché è sempre nuovo, sorprende e costringe a mettersi ogni volta in discussione come essere umano, a capire che animali siamo: tutte le volte che si deve entrare nel personaggio bisogna analizzare il motivo per cui agisce in un certo modo e ciò richiede introspezione psicologica e riflessioni su come funzionano le cose.

La tua partecipazione allo spettacolo de «I Demoni» ha alcuni risvolti curiosi…

Sì. Una decina di anni fa avevo letto il romanzo di Dostoevskij e mi ero innamorato di quest’opera, mi piaceva tantissimo e mi sarebbe piaciuto interpretare il ruolo di Pëtr Stepanovič Verchovenskij in teatro. Trascorsi dieci anni sono stato scelto proprio per ricoprire questo ruolo nello spettacolo messo in scena da Peter Stein, un progetto basato sul libro dell’autore russo e non sulla trasposizione di Camus. Lo spettacolo durava circa 12 ore, dalle 11 di mattina fino alle 10,30 di sera, di cui 9 ore di recitazione inframezzate da varie pause per il pranzo e altri momenti di condivisione con il pubblico, un po’ come avveniva ai tempi degli antichi Greci. Inoltre, originariamente lo spettacolo era prodotto dal teatro Stabile di Torino, ma dopo alcuni mesi di prove era stato sospeso. Eravamo così legati a questo progetto che Peter Stein ha deciso di fare comunque quattro repliche andate in scena nella sua residenza umbra, a San Pancrazio, alla presenza di operatori di festival europei e mondiali oltre a svariati critici italiani. È piaciuto talmente tanto che l’anno successivo abbiamo fatto una tournée di 4 mesi in giro per il mondo toccando Milano, Napoli, Roma, Torino, Amsterdam, Atene, Vienna, Parigi, New York.

Da un po’ di tempo hai iniziato a cimentarti come regista. Come è nata questa nuova passione?

Un paio di anni fa mi era stato chiesto di curare la riduzione di «Romeo e Giulietta», in occasione del progetto Pocket Shakespeare del Teatro Due di Parma, dove faccio parte dell’ensemble permanente da circa 4 anni. Il progetto prevedeva la riduzione a 20-30 minuti di una decina delle opere del drammaturgo inglese, proposte nell’arco della stessa serata in momenti consecutivi ma in sale diverse del teatro, affinché lo spettatore potesse assistere a quelli a cui era interessato. È stata una prova impegnativa perché, contemporaneamente, ero anche attore in altri spettacoli dello stesso progetto, e dovevo occuparmi in alcuni momenti delle prove di regia e in altri in quelle di attore, il tutto coordinato con i tempi e gli spazi del teatro. Alla fine è andato molto bene, così per la stagione 2010-2011 mi hanno chiesto se volevo fare la regia di uno spettacolo lungo, «Così è se vi pare» di Pirandello, che ha avuto buon riscontro di pubblico e critica, si faranno ulteriori repliche nella stagione in corso. A marzo prossimo, invece, farò la regia di «La visita della vecchia signora» di Dürrenmatt. Il mestiere che faccio è un po’ particolare, lo strumento di lavoro è se stessi, con le proprie emozioni. È un lavoro che va di pari passo con la propria crescita umana, tant’è che fino a pochi anni fa non pensavo minimamente alla regia. Ad un certo punto, però, mi sono accorto che quando riflettevo su progetti, testi o storie, lo facevo pensando a come mi sarebbe piaciuta raccontarla anziché a «che bel ruolo, mi piacerebbe fare il tal personaggio».

Cosa ci racconti della tua attività di attore cinematografico e televisivo?

A breve uscirà «Chamber film» di Tommaso Rossellini, in cui ho il ruolo da protagonista a fianco di Fanny Ardant. È molto teatrale perché girato in un unico ambiente, la bellissima Villa Bordonaro di Palermo, dove una star del cinema ormai sul viale del tramonto darà una festa alla conclusione delle riprese del suo ultimo film. È incentrato sui rapporti e sulle relazioni della diva con i suoi parenti, conoscenti e il giovane regista che l’ha voluta nel suo film d’esordio solo per sfruttarne la notorietà, coi quali litigherà durante tutto il tempo. Oltre ad altre partecipazioni minori e in film per la tv come «Ris», «Carabinieri» o «La squadra», in cui ho fatto il criminale di turno di alcune puntate, nel 2007 sono stato il protagonista nella commedia sentimentale medio-amara «Riprendimi», diretta da Anna Negri, l’unico film italiano ad andare al Sundance Film Festival di Salt Lake City.

Che differenze ci sono tra recitare per il cinema e a teatro?

A livello tecnico è un po’ la differenza tra correre i 100 metri e la maratona. A teatro inizi, vai in scena e prosegui, la presenza del pubblico ti fa carburare, si crea uno scambio sinergico in cui l’energia e la concentrazione ti giunge anche da ciò che stai facendo. Nel cinema anche se si lavora molto meno paradossalmente ci si stanca tantissimo. Sul set si rimane anche per una decina di ore recitando, però, solo per mezz’ora o un’ora, in quanto la macchina del cinema è talmente grande che l’attore è solo uno degli ultimi tasselli. Quando si arriva sul set ci sono i tecnici che allestiscono le scene, montano le luci poi capita che passa una nuvola e si devono fermare, passa l’elicottero e devono interrompere nuovamente. Così si aspetta in roulotte il proprio turno, leggendo o dormendo e quando finalmente tutto è a posto arriva la chiamata degli assistenti: «Ok, pronti, tra 5 minuti si gira!». In quel breve lasso di tempo ci si deve concentrare per andare a recitare magari la scena più importante del proprio personaggio – di cui spesso non si sono ancora girate le parti precedenti del copione perché il piano di lavorazione delle riprese non le ha ancora previste -, insieme ad altri attori mai incontrati prima e, di botto, senza aver fatto prove, bisogna dare il massimo… per poi tornare alla roulotte in attesa della chiamata successiva. Teatro e cinema sono proprio due cose diverse, nel primo si può bleffare un po’ nell’interpretazione, ma per il cinema no: la macchina da presa legge tutto, se non c’è un pensiero dietro a ciò che si stai facendo si vede.

Professionalmente come ti vedi tra una ventina di anni? Attore consumato che ripete per la 700ima volta la stessa parte?

Spero di avere la voglia di fare ancora cose nuove, di non perdere un po’ di incoscienza per fare le cose che non conosco ancora per intero, come mi è accaduto fino ad ora. Sono 15 anni che faccio questo mestiere e durante questo periodo le mie motivazioni sono sempre cambiate, con stimoli nuovi e diversi. Spero nel tempo di non sedermi, di non perdere la curiosità infantile verso il mio lavoro che, se si sbiadisce, fa perdere il piacere in ciò che si fa.

 

Nell’attesa di nuove interviste nel 2015, perchè non rituffarci nelle sensibilità artistiche incontrate nel tempo? ecco quindi che Renzo Bellardone propone alcune interviste a celebrità incontrate nel mondo del teatro d’opera e nelle sale da concerti. Buona lettura!

Dopo averla vista ed ascoltata diverse volte in teatro, qualche anno fa a Baveno, ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere Gemma Bertagnolli. Quando le ho parlato la prima volta, sono stato immediatamente colpito dall’enorme sensibilità, vasta cultura e disarmante disponibile semplicità.  L’ho poi ancora ascoltata in varie occasioni dal vivo e ad ogni incontro provavo l’emozione di trovarmi dinnanzi ad una persona speciale. Quest’anno all’edizione del Baveno Festival 2014, ho avuto più occasioni di incontrarla, parlarle  e vederla al lavoro…e poi tra un sorriso ed una gentilezza, abbiamo pensato ad una intervista: eccola! 

INTERVISTA A GEMMA  BERTAGNOLLI

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Carissima Gemma, ormai da anni sei un punto fermo per l’Umberto Giordano Baveno Festival, dove fai master class, prepari spettacoli e tu stessa ti proponi in concerto. Dopo aver girato tutto il mondo, essere stata ospite di imperatori,  come ti senti quando giungi sulle rive del Lago Maggiore?

Baveno è stato per me un luogo di bellezza, di amicizia, di laboratorio ed io al Festival  sono stata una degli ospiti più assidui e quando torno a Baveno è come ritornare a casa. Per me questo luogo è diventato una Patria: mi mancherà , l’ho amato tanto, ma se io perdo Baveno perdo una patria, se Baveno perde il Festival perde una cifra enorme che la definisce e la fa rimbalzare nel mondo. Anche grazie al nome dei suoi ospiti ed ai suoi progetti, il nome di Baveno  è stato lanciato ben oltre i suoi confini. In questo caso non parlerei di cultura (parola abusata come “amore” ), ma di civiltà, che non deve essere per forza un affare, per essere necessaria. Credo invece  indispensabile  creare l’habitat perché i bambini  crescano sani, intelligenti, che si confrontino e che gli adulti abbiano punti di riferimento e luoghi di aggregazione che sopperiscano all’isolamento cui costringe la nuova tecnologia.

Come accennavo, hai cantato nei luoghi più prestigiosi del mondo, con i colleghi più affermati ed i più  importanti direttori d’orchestra, ma sei rimasta una persona semplicissima che fa del suo sorriso il biglietto di presentazione 

Si ho cantato veramente in mezzo mondo ed ho conosciuto posti dove la civiltà è esaltata ed altri dove è dimenticata e la “barbarie” cui si va incontro è proprio questa. Una volta per tutte dico che in questo momento storico credo  non esistano più il fronte della destra e della sinistra, ma il fronte della barbarie e quello della civiltà,  tenendo ben presente che se la barbarie  produce  guerra,  la civiltà produce pace! E non ho dubbi. Sono stufa di sentire parlare di logiche di destra o di sinistra: sono tutti teatri miserabili. L’uomo nasce per essere sempre più libero, più bello, più evoluto e non sempre più ricco! Non è questo lo scopo! Invece molte delle scelte di oggi seguono logiche di denaro e non di evoluzione.  Per considerare invece il tuo accenno alla semplicità, penso che all’interno di un gruppo civile ognuno fa quello che sa fare;  non è che chi canta è più vicino agli dei, e non è proprio mai il caso di “tirarsela”.

Gemma sei diventata interprete di riferimento per molti ruoli, affermandoti fin da inizio carriera quale interprete mozartiana 

Ho la fortuna di aver cantato talmente tanta musica di Mozart –sacra, opere, cantate, mottetti- che mi sembra di  conoscerlo  intimamente ed ogni tanto gli parlo e  gli chiedo il permesso prima di cantare le sue composizioni. Ho conosciuto l’anima, a forza di cantare le sue note. Il sentimento della sua musica mi travolge:  “Quando penserete a me che sono morto e verserete una lacrima sul mio ricordo io soffierò il cielo sopra di voi” e quando cantando il suo Lied “Abendempfindung” arrivo a questo punto, ogni volta piango. 

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Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, tu devi avere un’anima molto luminosa ed eloquente e quando canti, credo che la tua anima  si ravvivi ancor più 

Soprattutto quando si entra in contatto con anime di persone che non ci sono più e la musica crea questo grande collegamento luminoso attraverso i secoli….

E  questa luminosità credimi, si sente anche ascoltandoti in CD; a proposito, ma quanti cd hai inciso? 

Ti ringrazio per questo tuo sentire la luce dell’entusiasmo anche attraverso l’ascolto dei CD. Quanti sono? Decine e decine…. 

Sia come artista che come donna dai l’impressione di cercare e forse riuscire a vivere ogni attimo con l’intensità dell’unicità irrepetibile e questo ti rende speciale 

Hai proprio colto la chiave della mia vita….Si è così; tutti portiamo sulle spalle un passato pesante e nel mio caso è fatto anche del pensiero di Bach, di Monteverdi o di Socrate e Platone…, ma dobbiamo vivere come se avessimo un futuro infinito o solo più un minuto ! 

Per tornare ancora al Baveno Festival 2014, dopo aver molto ben preparato gli allievi per l’intermezzo “la Vedova Ingegnosa” di Selliti  hai proposto un concerto jazz su musiche in larga parte del 600 (tra l’altro hai scritto delle bellissime note per il libro di sala) 

Si, “la Vedova Ingegnosa” è stata una bella e riuscita realizzazione e sono particolarmente contenta che questo sia avvenuto a  Baveno che è un posto speciale, fosse anche solo per l’emozione che provavo ogni mattina aprendo la finestra…

Circa il concerto allo Stabilimento Minerario è stato il risultato di una grande ricerca di quel fil rouge che collega la musica di tutti i tempi. 

Quali sono i tuoi progetti immediati ? 

A breve sarò a Dubronvik a cantare un’opera di Scarlatti e pensa che  questo  mio ruolo era stato scritto per Farinelli; questa volta porto due pesanti giganti :Scarlatti e Farinelli. Dopo sarò all’Aquila per incidere un Cd con “Gli Archi del Cherubino” un progetto nato nel 2007 da un’idea della mia amica Judith Hamza: sono  ragazzi speciali che suonano da quando son bambini e non dimentichiamo, sopra le macerie, anche se non per questo vanno ascoltati, ma per la loro bravura. Dopo, parto per il Giappone dove farò concerti per gli Imperatori. 

Ed ora prima di lasciarti al tuo lavoro mi  racconti del tuo ‘buen  retiro’ quando riesci ad avere un raro  attimo tuo? 

Venezia: la mia casa di Canareggio dove mi rifugio e mi sento “riparata” . Qui la mia anima, dopo aver lasciato brandelli dappertutto,  si riaggiusta, si ricompone, si ripara pronta a ripartire per nuove ricerche, nuovi cimenti, nuove sensazioni. 

Grazie Gemma per la gentilezza che mi hai  riservato e ti confesso di sentirmi molto onorato e gratificato dal conoscere una persona speciale, quale tu sei.. Ti auguro un sacco di buona fortuna con un sentitissimo :  in bocca al lupo !

Renzo Bellardone con Gemma Bertagnolli

 

Maria Lacchio ha intervistato

a Ottobre 2014

 

Giovanni Lacchio

Giovanni Lacchio, intervistato alla sua partecipazione a Poetiche Armonie.

Non è stato facile farsi rilasciare un’intervista da Giovanni Lacchio; schivo e riservato non ama esporsi né tanto meno parlare di sé. Dopo qualche insistenza, però, sono riuscita a vincere le sue reticenze ed ha accettato di rispondere a qualche domanda.

-Prima di parlare della tua attività artistica ci farebbe piacere conoscere qualcosa di te.

Sono nato nel 1949 a Santhià, dove vivo; sono sposato e ho una figlia. Ho frequentato l’Istituto Tecnico “Bodoni” a Torino dove ho conseguito il diploma di grafico pubblicitario. Il mio percorso lavorativo è iniziato presso importanti aziende della zona ed è proseguito come insegnante presso una scuola professionale altamente qualificato.

Quando è iniziato il tuo percorso artistico?

Giovanni Lacchio all’inaugurazione di una sua mostra con Tiziana Impellizzeri.

Se proprio devo individuare una data, direi nel 1971, ma fin da bambino mi piaceva disegnare e dipingere.

-Cos’è successo nel 1971?

Ho iniziato, da autodidatta, a sperimentare le diverse tecniche pittoriche. Tecnicamente, la formazione grafica mi ha facilitato lo studio, ma la trovavo troppo artificiosa, lontana dalla mia natura. La grafica non suscitava in me alcuna emozione; nella pittura, al contrario, potevo esprimere sentimenti, stati d’animo, emozioni. Attraverso i colori potevo creare atmosfere suggestive.

Quali sono i soggetti che preferisci dipingere?

I paesaggi. La Natura è una musa ispiratrice straordinaria e una ‘modella’ sempre diversa e sempre meravigliosa. Non delude mai. Osservare la Natura fa stare bene, rilassa, induce alla meditazione. Ho dipinto nature morte, ritratti, fiori ma nessuno di questi soggetti mi dava le stesse emozioni che provo dipingendo l’ansa di un fiume o un mulino. Mio padre era un bravo ritrattista.

-Allora è un dono di famiglia

Saper dipingere, come qualsiasi altra forma d’arte, è indubbiamente un dono, ma questo dono bisogna coltivarlo, farlo crescere con lo studio e l’applicazione costante; diversamentw è un dono sprecato. Non ci si improvvisa pittore come non ci si improvvisa musicista o attore.

Il tuo pittore preferito?

Sisley, direi, ma in generale tutti gli impressionisti, di cui ammiro l’armonia cromatica, la suggestione visiva; ogni pennellata è un’emozione.

-I tuoi paesaggi sono sovente animati dalla presenza di animali, cavalli soprattutto

I cavalli sono animali stupendi, ma una sfida per un pittore; sono soggetti difficili da dipingere; fermare sulla tela l’eleganza del portamento, la forza dei muscoli, la lucentezza del pelo non è per niente facile; occorre molto studio, soprattutto dell’anatomia.

-Molti tuoi quadri riproducono i paesaggi del selvaggio West; cosa ti attrae di questo mondo?

Sono appassionato di storia dei nativi americani, gli indiani per intenderci, da loro l’uomo moderno avrebbe molto da imparare.

Per esempio?

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Contrariamente a quanto si può pensare, non erano dei ‘selvaggi’ ma avevano una civiltà molto evoluta; rispettavano la Natura; ne usavano le risorse ma non la depredavano né la violentavano. Lo stesso discorso vale per gli animali.

-La tua prossima mostra che sarà inaugurata a breve ha per soggetto “Rogge e Gore” Le rogge sono dei torrentelli ma non tutti sanno cosa sono le gore.

Le gore sono i salti d’acqua che facevano girare le ruote dei mulini. “Rogge e Gore” è un omaggio alle Terre d’Acqua dove sono nato e cresciuto.

Ma non sono certo suggestive come, ad esempio, uno scorcio marino.

Ogni paesaggio ha il suo fascino. Un tramonto sul mare e un tramonto su un campo dorato di riso maturo hanno un diverso fascino, ma entrambi sono uno spettacolo superlativo. E poi ch sono i piccoli ‘tesori’ nascosti come un mulino abbandonato o una roggia che gorgoglia circondata da un tappeto di muschio soffice o i sassi bagnati che riflettono i raggi del sole.

Nei tuoi quadri l’acqua è un soggetto ricorrente.

L’acqua è la protagonista dei miei quadri perché l’acqua è vita sia in senso concreto che figurato.

Vale a dire?

Senza l’acqua la vita è impossibile e tutti ne siamo consapevoli. Nonostante ciò si continua a inquinare e a sprecare questa grande ricchezza. Ma non voglio sembrare polemico.

-E in senso figurato?

Se osservi un corso d’acqua, un ruscello o un grande fiume non fa differenza, vedrai che l’acqua scorre tra mille ostacoli: sassi, rami caduti che intralciano il suo corso; a volte è costretta a fermarsi o a cambiare direzione, ma caparbiamente prosegue il suo corso. Il suo colore cambia come l’umore umano; grigio nei momenti burrascosi, azzurro nei momenti si serenità. Per non parlare della ‘voce’ dell’acqua, ma questa è materia più adatta ad un musicista che ad un pittore. Ora però scusami, ma c’è una barca che mi sta aspettando.

Una barca?

Sì, sto costruendo il modellino di una goletta; è uno dei miei passatempi. E poi andrò al centro commerciale: anche gli artisti mangiano. Buona giornata.

Buona giornata anche a te e grazie.

 

a Settembre 2014 

SIMONA BARUGOLA

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Simona Barugola è nata a Vercelli nel 1969. Dopo il diploma tecnico si occupa di informatica. Negli anni successivi al matrimonio la sua vita subisce dei cambiamenti drastici; e sarà lei stessa a raccontarceli in questa intervista che gentilmente ha concesso alla “Voce”.

L’arrivo delle mie ragazze, le mie due inarrestabili e meravigliose farfalle, ha scompigliato la vita mia e di mio marito, ma ci ha anche insegnato che quando si è veramente uniti le difficoltà si affrontano meglio e le montagne diventano colline. Così ho modificato i miei obiettivi e ho rispolverato le mie passioni tra cui la lettura.

E la scrittura?

Scrivere è un’attività che mi appassiona molto. Ricordo che a scuola mi venne fatto un commento su un breve racconto che avevo scritto: “Perché non scrivi un libro?” Subito ho riso all’idea, poi ho deciso di provare a scrivere, ho preso carta e penna e ho cominciato a scrivere la mia storia.

Così è nato “L’Ora di Middle Dawn” il tuo primo libro che appartiene al genere fantasy. Anche “Ritorno a mondo Antico”, fresco di pubblicazione, appartiene allo stesso genere. Quali sono le tue fonti di ispirazione? Come progetti un libro?

Le fonti di ispirazione sono innumerevoli; una frase, un suono, un’immagine. Fisso le mie riflessioni sulla carta; frasi semplici a cui aggiungo altre ipotesi e pensieri che mi colpiscono che organizzo poi per un ipotetico racconto. Se ciò mi soddisfa inizio a lavorare a una narrazione seguendo un filo conduttore che ancora però non so dove mi condurrà. Quando ho iniziato a scrivere “Ritorno a Mondo Antico” avevo appena terminato di leggere una storia coinvolgente che mi ha aiutata a trovare l’inizio del famoso filo conduttore immaginario.

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Vuoi riassumere in poche parole la trama di “Ritorno a Mondo Antico”?

E’ la storia del viaggio della piccola Chiara verso casa, la casa da dove era stata allontanata per proteggerla da un pericoloso nemico: Duca. Il racconto è ambientato nei primi anni del novecento; i luoghi non hanno un nome riconoscibile, città e paesi sono inventati, ma potrebbero essere collocati in qualsiasi parte d’Europa. Chiara perderà ogni ricordo del proprio passato, ma lentamente scoprirà di appartenere ad un popolo dimenticato e di possedere un ‘potere’ che sarebbe molto pericoloso se cadesse nelle mani sbagliate. Nel suo viaggio di ritorno verso casa Chiara è accompagnata da Roby, un ragazzino dotato anch’egli di uno dei poteri dimenticati. Durante il loro lungo viaggio sopravvivono grazie a numerosi espedienti e si imbattono nei minacciosi Baroni del Duca, il pericoloso nemico a causa del quale era stata allontanata da casa. “Ritorno a Mondo Antico” è una fantasy che racconta di guerre, di sterminio, si sopravvivenza, di sfruttamento.

Sono argomenti molto ‘forti’ per un libro per preadolescenti   Sono mali attuali, presenti in molti Paesi. In “Ritorno a Mondo Antico” è vero, ho affrontato argomenti molto ‘pesanti’, ma in forma digeribile anche ad un ragazzino. La preadolescenza è un periodo delicato; è difficile parlare ai ragazzi di illegalità, di corruzione, di dolore senza annoiarli. L’importante è che si pongano la domanda: “Questi mali esistono?” e che siano pronti a riconoscerli. Non servono libri voluminosi per descrivere come vengono maltrattati i bambini; è sufficiente descrivere le lacrime della protagonista alla vista dei bambini maltrattati.

Per quale ragione hai scelto, tra tanti generi, quello fantasy?

Scrivo racconti fantasy perché amo quella parte magica che ci fa sognare. I miei racconto, anche se trattano argomenti delicati sono pensati per lettori che ancora hanno voglia di sognare, nonostante tutto. Mi piace pensare che i miei personaggi stimolino l’immaginazione del lettore, che ha il diritto di sognare e di parteggiare per i buoni o, se preferisce, per i cattivi.

Qual è il tuo rapporto con i libri?

Quand’ero ragazzina non avevo un buon rapporto con la lettura. In seguito, quando ebbi la possibilità di scegliere, scoprii di amare i libri; anzi si scatenò una vera passione. Ho letto un po’ tutti i generi; da Swift a Conan Doyle, da Tolkien alla Cornwell. Il libro a me più caro è “Cent’anni di solitudine” di Marquez perché è quello che mi ha fatto scoprire la bellezza della lettura.

C’è un libro che ha ispirato “Ritorno a Mondo Antico”?

Quando ho immaginato la storia avevo appena terminato di leggere la trilogia di P. Pullman “La bussola d’oro”, “La lama sottile” e “Il cannocchiale d’ambra”. E’ stata una lettura coinvolgente che, come già ho detto, mi ha aiutata a sviluppare alcune idee.

Hai anche un blog. Ce ne vuoi parlare?

Con piacere. Lo scorso anno ho deciso di realizzare il blog Folgorati da un pensiero (www.folgoratidaunpensiero.blogspot.it) dove condivido alcuni racconti, condivido le mie riflessioni con altri. Ognuno è libero di aggiungere la propria riflessione perché ogni opinione ha il diritto di essere condivisa, adottata o rifiutata.

Ti ritieni una persona privilegiata?

Non credo di essere una persona privilegiata; sono una persona che ha raggiunto molti obiettivi lentamente ma con impegno costante. Ho realizzato tanti sogni e spero di realizzarne molti altri. Per realizzare i miei sogni ho dovuto cambiare strada o punto di vista molte volte, ma non mi sono mai arresa e quando si ha accanto una famiglia che ti incoraggia tutto diventa più facile.

Un incoraggiamento per i tuoi giovani lettori, e anche per i meno giovani. Grazie Simona, ti auguro di realizzare tutti i tuoi sogni.

a Giugno 2014

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GIOVANNA RACCA

Ciao Giovanna, grazie per averci concesso questa intervista. Allora, cominciamo a conoscerci. Raccontaci un po’ di te

Sono nata a Gattinara e vivo a Vercelli. Mi piace passeggiare per le vie di una bella città con il mio compagno, gustare prelibatezze in un caffé di design e scoprire angoli nascosti ed insoliti. Mi piace il tepore del sole durante una camminata nella natura. Nel mio laboratorio scelgo il silenzio per creare nella concentrazione assoluta, al di fuori cerco l’ascolto della gente che vive, la passione di una sinfonia musicale in un teatro, le fusa della mia gatta Saetta e gli occhioni pelosi della mia cagnolona Pippa.

Affascinante. Quando è iniziato il tuo feeling con l’arte della decorazione della ceramica?

Fin da bambina avevo un interesse particolare per l’arte e osservavo con ammirazione mio papà che si dilettava dipingendo quadri ad olio. Ho iniziato a frequentare corsi di disegno e fin da subito mi sono diretta verso la decorazione su ceramica e su porcellana.

Che cosa ti attraeva di quest’arte?

Soprattutto la finezza, la precisione e la pazienza che richiede questa disciplina.

Quindi già da bambina avevi deciso cosa avresti fatto ‘da grande’.

Sì, a 13 anni ho cominciato a frequentare il laboratorio di un’artista vercellese e un paio di anni dopo mi sono iscritta all’istituto di Belle Arti di Vercelli, dove ho cominciato una costante ricerca personale sugli stili classici dei disegni su porcellana, dal Meissen al Sèvres, dalle ceramiche della vecchia Lodi allo Strasburgo, spingendomi talvolta a tratti orientali. Mi sono diplomata nel 1995 con la docente Olga De Bianchi nella tecnica della decorazione a ‘terzo fuoco’.

Cosa significa?

Nella manifattura, l’oggetto, sia esso un vaso, una piastra, un gioiello, prende forma da una colata di pasta ceramica liquida in uno stampo di gesso e viene cotto una prima volta a 1020 gradi la ceramica e a 900 gradi la porcellana per diventare il ‘biscotto’. Poi viene immerso nella cristallina, una sostanza che dopo una seconda cottura -900 gradi la ceramica e 1200-1400 gradi la porcellana- lo rende bianco o colorato, lucido o satinato. Qui inizia il mio lavoro con la decorazione a pennello che porta il pezzo ad una terza cottura, ecco perché si chiama ‘decorazione a terzo fuoco’. Intorno ai 750-800 gradi i colori stesi sull’oggetto penetrano nella superficie e si fissano nella loro unicità.

giovanna racca

 

Da dove trai ispirazione per i tuoi soggetti?

Dalla natura che mi circonda; lo sguardo attento di un gatto, una succulenta torta di ciliegie appena sfornata, un fiore bagnato dalla rugiada del mattino, il volto esotico di una modella, i colori sgargianti dell’oceano. Ovviamente l’ispirazione viene supportata dallo studio continuo delle tecniche, frequentando corsi e seminari con artisti di fama nazionale ed internazionale: Magda Casetta a Torino, Peter Faust a Brescia e poi ho partecipato a workshop con vari artisti a Lyon. Ritengo infatti inscindibile il confronto-incontro tra la mia creatività e lo studio continuo delle tecniche e delle ideee degli artisti che danno al mondo della decorazione sulla porcellana sempre nuovi stimoli.

Guiovanna Racca e Peter Faust

Nel 2013 due tue opere sono state pubblicate sul prestigioso catalogo-manifesto “Artistar 2013” che con una rassegna espositiva a Milano ha promosso le creazioni di pregio e di elevato valore artistico. Un bel traguardo.

Indubbiamente una grande soddisfazione.

Ricordi la tua prima personale?

Risale al 2008 nei saloni dell’auditorium della chiesa di San Marco a Borgomanero. Dal 2009 partecipo alle stagioni di “Arte a Palazzo” della sala espositiva di Palazzo Tornielli della stessa città e alle iniziative dell’Associazione Culturale “La Voce”. Dal 2011 espongo ed eseguo dimostrazioni dal vivo in alcune ville e castelli lombardi con l’associazione di artisti-artigiani “Eventi-doc”.

Infatti più volte noi della “Voce” abbiamo avuto l’onore di averti ospite alle nostre iniziative, di apprezzare il tuo talento e la raffinatezza delle tue opere. Ti ringraziamo e speriamo di averti presto nuovamente con noi. Grazie e a presto.

 

 

a maggio 2014

Max Mazza

MASSIMO MAZZA

su“C’era una volta un pezzo di legno …” così potrebbe iniziare questa intervista, proprio come inizia “Pinocchio”. Incontro “mastro Geppetto” nel cortile del castello di Vettigné. Davanti al banchetto spicca un’insegna pirografata a grandi caratteri gotici ‘Max Restorer -Woodcarver’ cioè restauratore e intagliatore ligneo. Lo osservo mentre lavora di scalpello attorno ad una scultura lignea, le sue mani lavorano veloci e con una precisione millimetrica. Sorrido tra me; piercing, tatuaggi e lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo non sono proprio i tratti caratteristici di mastro Geppetto. Probabilmente sentendosi osservato, alza lo sguardo e sorride,un bel sorriso aperto e cordiale. Vedendomi interessata ai lavori, peraltro bellissimi, che ha esposto, inizia a raccontarmi la ‘storia’ delle sue opere. Gli spiego che mensilmente pubblichiamo un’intervista ad un artista sul sito dell’Associazione culturale “La Voce” e saremmo onorati se anche lui ce ne concedesse una. Ecco cosa ci racconta.

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Mi chiamo Massimo Mazza, sono nato il 10 aprile del 1989, terzo di tre fratelli, di cui nessuno ha la mia stessa passione per il mondo del legno. Abito ad Alice Castello. Mi sono diplomato al liceo artistico “Ambrogio Alciati” di Vecelli e in seguito ho frequentato per tre anni la scuola per artigiani e restauratori “Maria Luisa Rossi” di Torino e ho conseguito la qualifica di tecnico esperto nella realizzazione di intagli e sculture su legno e la qualifica di tecnico restauratore ligneo. Ho seguito vari stages formativi tra cui uno semestrale per il restauro di “Casa Bossi” di Novara presso la falegnameria Tiziano Bertolo e un altro a Grugliasco per il restauro della Chiesa di San Cassiano.

Quando è sbocciato il tuo grande amore per il legno?

A mia memoria la passione per il legno c’è sempre stata. Fin da piccolo ho avuto un rapporto splendido col legno, materiale così comune e nello stesso tempo così nobile … adoravo le venature, la cosistenza e gli effetti che poteva dare un inerte pezzo di legno, un mondo dove non c’è limite alla fantasia.

A proposito di fantasia, le tue creazioni sono molto originali; quali sono le tue fonti d’ispirazione?

Non mi ispiro a nessuno; sono molto estemporaneo e le cose mi vengono di getto, senza studi particolari prima… nella mia testa vedo esattamente come sarà il lavoro finito! Ho fatto parecchi studi e ricerche, sia da autodidatta sia da studente, sui ‘grandi’ della scultura lignea che conosco e ammiro infinitamente. L’arte è un mostro in continua evoluzione e si cerca sempre di andare avanti, ma con un occhio critico e rispettoso verso il passato.

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Descrivici il tuo ‘sancta santorum’ dove dai vita alle tue opere

Nel mio laboratorio non devono mai mancare la musica, altra mia grande passione, e i trucioli sparsi ovunque che donano un nonosoché all’ambiente, specialmente quelli di essenze lignee come pino o noce che sprigionano un profumo estasiante. Ho un religioso rispetto per quella stanzetta distaccata dal resto della casa e pr tutto ciò che conservo al suo interno, specialmente i miei ferri da lavoro -sgorbie, scalpelli, calcagni – di cui sono morbosamente geloso!

Oltre a quella per il legno quli sono le tue passioni?

Come ho detto sono un grande appassionato di musica di tutti i generi e quando ne ho l’occasione vado ai concerti; adoro la lettura -romazi, trattati di erboristeria, trattati storici, pamphlets, introvabili … – colleziono i fumetti di “Dylan Dog”, strumenti antichi da falegname, bicchieri con marchi di birra e oggettistica da bar dello stesso tipo. Sono appassionato di cinema e di numismatica.

E quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Spero vivamente che la mia passione per il legno si trasformi presto in un lavoro effettivo, visto che sono stato riconosciuto svariate volte come un buon artigiano anche da persone che sono del mestiere da più di mezzo secolo. Purtroppo il periodo che stiamo vivendo non offre grandi sbocchi per una professione come questa, ma sono speranzoso e fiducioso in un futuro roseo per il restauro ligneo.

E noi ti auguriamo di tutto cuore un futuro radioso e che tu possa realizzare tutti i tuoi progetti.

ad aprile 2014

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PAOLA CAMORIANO

Paola, classe 1974, dopo aver frequentato il Liceo Artistico a Novara, si iscrive alla Scuola del Fumetto di Milano. Dal 1996 al 2008 collabora con il settimanale “Il Giornalino” nella realizzazione di numerose serie a fumetti tra cui la riduzione a fumetti della serie tV Rai “Don Matteo”. Nel 2009 inizia la collaborazione con Edizioni Star Comics e altre pubblicazioni tra cui PM di Verona, Achtoons di Bologna, Fotoedizioni di Milano e Gruppo Alcuni di Treviso. All’attività di fumettista affianca quella di illustratrice di libri per l’infanzia. Tra il 2005 e il 2006 lavora come attrezzista teatrale e nel laboratorio scenografico del Teatro Stabile di Torino per la messa in scena degli spettacoli di Luca Ronconi per le Olimpiadi e le Paraolimpiadi invernali di Torino 2006. Partecipa a molte edizioni di Lucca Comics&Games, Cartoomics Milano, Torino Comics, Novara Comics e alla kermesse “Vercelli tra le Nuvole”. Come cartoonist per Bmc partecipa a VM World 2012 e Gartner Suymposium a Barcellona. Attualmente vive e lavora come fumettista e illustratrice a Tronzano.

Ciao Paola, grazie di avere accettato di fare questa intervista. Quando hai scoperto di avere la passione per i fumetti?

La mia folgorazione per il fumetto l’ho avuta da bambina, ho sempre disegnato e scritto da me i miei albi voluminosi. La consapevolezza che volevo fare questo mestiere l’ho avuta dapprima con i fumetti del grande Gianni De Luca e poi con Toppi, Tacconi, Zaniboni, Battaglia. Mentre frequentavo la Scuola del Fumetto a Milano mi sono appassionata al fumetto storico franco-belga e ho iniziato il mio percorso svoltando in quella direzione. Da allora i miei riferimenti sono i fumettisti come Moebius -per me il più grande genio del fumetto mondiale- Juillard, Gibrat.

Come hai iniziato la tua attività di fumettista?

Dopo il diploma al Liceo Artistico di Novara ho frequentato un corso triennale di fumetto presso la Scuola del Fumetto a Milano, una delle prime in assoluto in Italia. Era una scuola privata, e ringrazio ancora ora i miei genitori che mi hanno dato la possibilità di frequentarla, pagandola anche parecchio … Sono stati tre anni molto faticosi; ogni mattina prendevo il treno per Milano e rientravo alle 21 e lavoravo fino a tarda notte per completare i lavori che mi venivano richiesti. Ma i sacrifici avevano uno scopo preciso; a 21 anni, finita la scuola, sono stata subito ingaggiata dal direttore artistico del”Giornalino” di Milano come fumettista.

Qual è stato il tuo primo personaggio?

Una ragazzina di nome Penny. Avevo 8 o 9 anni credo…Il mio primo fumetto l’ho disegnato per il “Giornalino” appunto. Zia Agatha, si chiamava, una ‘signora in giallo’ anzianotta che risolveva furti e delitti.

Da Zia Agatha la tua carriera è decollata….

Sì, poi mi hanno affidato la serie “Maj Lin” che era disegnata da Sergio Zaniboni, uno dei miei miti del fumetto italiano. Lui la stava lasciando per disegnare Diabolik per l’editore Astorina, e per me fu un grande onore questo ‘passaggio di testimone’. Nel frattempo, nel 1997, un’associazione di Roma il Cvs mi chiese di fare la biografia a fumetti del loro fondatoreMonsignor Luigi Novarese. Ho realizzato un album di 32 pagine a colori (sulle mie indicazioni uno studio di grafici milanese ha realizzato la colorazione digitale) di cui ho riscritto anche l’intera sceneggiatura per adattarla alla biografia.Nel frattempo continuavo la collaborazione con il “Giornalino”; dopo “Maj Lin” ho realizzato “I Jingles” e”Don Matteo” tratta dall’omonima serie Rai.

Inventi tu le tue storie?

Ho scritto da me solo una lunga serie di fumetti ambientata nell’Inghilterra del ‘500 che ha come protagonista una ragazza di nome Judith. E’ un thriller a fumetti con delitti e personaggi di ogni genere. Ne ho disegnate 24 pagine, inchiostrate e colorate da me. Era il compito che ci hanno affidato l’ultimo anno di scuola del fumetto. Ho realizzato queste tavole per tutto il corso dellano scolastico, ma non l’ho mai proposta per la pubblicazione. Faccio questo lavoro da 18 anni – il 16 aprile, giorno in cui mi hanno ingaggiata al “Giornalino”, lo considero il mio anniversario professionale- e ho sempre pubblicato scritte da altri. Ho collaborato con innumerevoli sceneggiatori e sceneggiatrici. Pertanto, ho sempre lavorato su storie di altri, forse perché il tempo era troppo poco e non avevo né il tempo né la concentrazione per dedicarmi ad una storia tutta mia … Ma in questi ultimi mesi mi sono detta che era il momento giusto di farlo. Da un po’ mi frullava in testa un’idea e così ho creato una storia tutta mia, l’ho disegnata, colorata e la sto per proporre a due grossi editori….ma non posso dire di più.

Come nasce una storia?

Le storie che mi vengono proposte sono di due tipi: in un caso hanno già una proposta grafica dei personaggi, cioè i personaggi sono già stati creati da altri e io devo dare la mia interpretazione grafica nel fumetto. Cioè il personaggio sarà lo stesso a livello morfologico e caratteriale per tutti i disegnatori -come accade per esempio per Dylan Dog e tanti altri – ma ogni disegnatore a seconda della sua sensibilità fornisce al personaggio sfumature diverse. In altri casi, invece, mi si richiede di creare dal nulla il personaggio. Mi vengono forniti dei dati scritti -caratteristiche fisiche e caratteriali- e io realizzo il personaggio così come lo immagino.

C’è un personaggio a cui sei particolarmente affezionata?

Forse è Yoric, della serie a fumetti “Dr. Morgue”, di cui ho disegnato un albo nel 2011 2La morte elettiva” per Edizioni Star Comicse poi un’edizione speciale “L’ospite d’inverno” nel 2012 -di questo albo ho realizzato sole le matite- Yoric è un anatomopatologo di Montréal in Canada ed è un personaggio molto particolare. Soffre di una forma di autismo, la sindorme di Asperger, è asociale e detesta i contatti umani, ma possiede una grande intelligenza e un umorismo spiazzante. Durante le autopsie che esegue sui cadaveri ha la capacità di rivivere il dramma vissuto dalla vittima e risalire così ai moventi e agli assassini, risolvendo gialli intricatissimi. La storia è scritta da due sceneggiatrici molto dotate, una palermitana e una romana, con loro c’è sempre stato un grande rapporto di stima reciproca e ho sempre lavorato molto bene con loro. Stiamo preparando una new entry del personaggio in un piccolo albo in pubblicazione per giugno.

Come si ‘costruisce’ un fumetto?

Si parte da una bozza, chiamata storyboard in cui si sttruttura la tavola a grandi linee e si stabilisce la posizione e lo spazio occupato dal lettering -il testo scritto nella nuvoletta che si chiama balloon-. Segue la fase del disegno a matita sul formato originale -io di solito lavoro sul formato A3 o 35×50 – poi viene l’inchiostrazione a china, a pennello o a pennino. Io uso di solito il pennello o un pennarello specifico con la punta a pennello e completo i particolari più piccoli con pennarellini dalla punta molto picola. Nella maggior parte dei casi inchiostro personalmente le mie tavole a matita, ma quando c’è poco tempo a disposizione realizzo solo ‘le matite’ delle tavole e mi viene affidato un inchiostratore che realizzerà il ripasso a china dei miei lavori. Ma spesso non mi piace come l’inchiostratore interpreta a china il mio tratto, per cui tendo a fare personalmente tutto il lavoro. Tra disegnatori, sceneggiatori e inchiostratori ci si sente solo via mail, le tavole vengono scansionate, per cui gli unici contatti diretti avvengono durante le fiere de fumetto; occasioni per confrontarci e chiacchierare e anche per disegnare per il pubblico nello stand del’editore. Molti editori stampano in bianco e nero e io consegno loro le tavole inchiostrate. Altri stampano a colori, ma il colore viene eseguito dai coloristi interni della casa editrice. In questo caso fornisco le fotocopie delle tavole colorate da me in ecoline -un tipo di acquarello- e sulla base delle mie indicazioni i coloristi procedono alla colorazione digitale. In altri casi faccio io la colorazione direttamente su tavola dsul disegno a matita e poi completo con il ripasso con la matita grassa, o il pastello nero, o a china, a seconda del lavoro.

Sei anche illustratrice…

Tra il 2003 e il 2009 ho illustrato sei libri per l’infanzia per le Paoline Editoriale Libri e ho realizato tante copertine, locandine, quadri di ogni genere, booklet per CD di varie band, loghi e anche murale ad acrilici. Mi piace molto lavorare ‘in grande’. Due anni fa, il comune di Tronzano mi commissionò la scritta dul muro della biblioteca comunale. Lavorare così in grande e su un trabatello di tre metri è stato molto divertente.

So che un’altra delle tue passioni è il teatro

Sono sempre stata molto appassionata di teatro, soprattutto per il lavoro ‘dietro le quinte’, scenografie e attrezzismo enel 2005 ho partecipato a un corso per attrezzista teatrale per il Teatro Stabile di Torino, che si è tenuto alle Fonderie Limone di Moncalieri, di gestione del TST. Dopo l’attestato ho vinto la selezione e ho partecipato alla realizzazione delle scenografie per gli spettacoli di ùronconi per le olimpiadi e le paraolimpiadi invernali di Torino 2006 nei laboratori scenografici, dei capannoni enormi tra Moncalieri e Trofarello, diretti dal Teatro Stabile. E’ stata un’esperienza meravigliosa, faticosissima, ma davvero memorabile.

Altre passioni?

La musica che amo vivere attraverso i concerti rock- metal con gli amici, e i viaggi. Amo molto viaggiare e visitare luoghi dove la natura sia meravigliosa, dove ci sia arte e storia da scoprire e la cucina locale da spertimentare…amo il cinema e amo moltissimo la fotografia. La mia reflex Isotta mi ha accompagnata in momenti indimenticabili.

Hai parlato di cucine locali, ti piace cucinare?

Sì, mi piace da matti cucinare per gli amici, poter fare felici le persone con i miei piatti mi riempie il cuore … vado forte negli antipasti, nei risotti, torte salate e dolci.

I tuoi piatti preferiti?

Gli gnocchi e il tiramisù. Adoro il vino rosso e la birra buona!

Attualmente vivi a Tronzano?

Da quando avevo 24 anni vivo da sola con i miei quattro animaletti, tre gatti -Vanilla, Timoteo e Elliot- e Artù, un meticcio bassotto che ha 13 anni. Non potrei vivere senza di loro. Quando posso vado a fare volontariato al canile di Borgo Vercelli. Ma amo TUTTI gli animali, cani gatti, cavalli, koala, pinguini e delfini sono i miei preferiti. Amo la natura in generale, soprattutto il vento di foen, i miei fiori preferiti sono le ortensie, i girasoli e le glicini, e la lavanda che mi ricorda la Provenza, altra regione che adoro. Le mie piante preferite sono la betulla e la quercia. I miei colori preferiti sono l’arancione e il turchese.

Sei sportiva?

Mi piace molto andare in mountainbike, ma l’ho abbandonata da un po’… dopo anni di inattività sportiva ora faccio boxe, però!

Sogni nel cassetto?

Andare a New York; e per quanto riguarda il lavoro lavorare in Francia e in Belgio dove vengono pubblicati i fumetti che più si avvicinano alla mia linea e al mio modo di disegnare e scrivee fumetti. L’anno scorso ho realizzato una versione francese di alcune tavole del fumetto che ho presentato ad alcuni editori francesi e belgi. Purtroppo dopo grandi complimenti, non c’è stato un investimento da parte degli editori. Ma ci riproverò.

Paola, grazie per la tua disponibilità e ti auguro di realizzare a breve i tuoi sogni. Ciao.

 

 

 

 

 

a marzo 2014 

Eugenio Sacchetti

EUGENIO SACCHETTI

Beh, essere figlio d’arte non è facile. Bisogna portare avanti il “peso” del cognome importante, si è pieni di responsabilità, bisogna sempre rispettare la scelta vocativa musicale, fare tanti sacrifici ecc.  Tuttavia, essere figlio d’arte è una grande fortuna, sono stato cresciuto fin da piccolo ascoltando musica, respirando l’aria musicale che circondava l’ambiente familiare, vedevo mia madre suonare e mio padre che continuamente componeva nuovi brani. Ma è solo crescendo che ci si rende conto di quanto sia stata importante la formazione musicale durante l’infanzia,  un qualcosa che completa l’essere umano.

Ho iniziato a suonare il violino a tre anni, con il metodo Suzuki. Prima di prendere lo strumento in mano (un violino minuscolo, quasi un giocattolo), ho intrapreso le lezioni di ritmica musicale, dove si acquisiva familiarità con gli oggetti musicali (cubetti di legno, violino finto, arco finto, palline morbide ecc.) e soprattutto si incominciava a leggere la musica.

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Eugenio Sacchetti

Scelsi personalmente di suonare il violino, ma  sono stato incerto fino all’ultimo, amavo molto il violoncello (strumento che amo ancora adesso). Scelsi il violino per il semplice fatto che era più piccolo e meno ingombrante (sono sincero). A quell’età si è indifesi e si fanno scelte per istinto. Sicuramente mia mamma mi ha leggermente indirizzato sul violino, probabilmente perché mi vedeva bene con lui.

I sacrifici sono stati molti nella mia vita. Come dice mio padre: “Fare il musicista non è uno scherzo”.  Essendo una vocazione, la musica richiede dedizione, rispetto per l’arte, dignità, umiltà. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui decisi che avrei fatto il musicista, avevo circa 11 anni.I primi sacrifici riguardarono lo sport. Ho iniziato a giocare a calcio a sei anni, e ho smesso a dodici, perché non riuscivo a conciliare tutto (scuola, conservatorio a Torino, calcio) e in più non andavo molto bene a scuola. Ho ripreso quando avevo quattordici anni, un po’ incoscientemente, ma ero certo di riuscire a portare avanti tutte le attività (liceo classico, conservatorio ad Aosta, calcio) e così è stato, e tutto con ottimi risultati. Ma i sacrifici accompagnano tutta la vita del musicista, bisogna avere cura del proprio fisico, della mente, delle energie ecc.

Il violino richiede molte ore di studio, in media io studio 5-6 ore al giorno. Shinichi Suzuki diceva in uno dei suoi aforismi la seguente frase: “Non avrai bisogno di studiare il giorno in cui non hai mangiato”. Ho sempre sostenuto che non importa la quantità di studio, ma la qualità dello studio. Ci sono molte persone che studiano 9-10 ore al giorno, curando fino all’esasperazione ogni dettaglio e pensando di raggiungere la perfezione assoluta, ma quando si accorgono che tutto ciò non è servito a niente, ormai è troppo tardi, e smettono di suonare. Mi ispiro molto ad una frase detta da Daniel Barenboim: “Sono certo di non arrivare alla perfezione assoluta, non è di questo mondo, ma voglio arrivarci il più vicino possibile”. Nelle mie giornate di studio non esiste solo il violino, c’è spazio anche per la Composizione, la direzione d’orchestra, la conoscenza di nuovi brani, l’organo, il pianoforte.

Il violino bisogna studiarlo tutti i giorni, altrimenti si perde gradualmente tutto ciò che si è costruito: “Se stai un giorno senza studiare violino, te ne accorgi tu, se stai due giorni senza studiare violino, se ne accorgono le persone a te vicine, se stai tre giorni senza studiare violino, se ne accorgono le persone che ti ascoltano”.

A nove anni? Non me lo ricordavo neanche! Ho fatto pochi concorsi, ma in quei pochi sono sempre salito sul podio. I successi devono ancora arrivare, sono molto giovane, e la strada è ancora lunga, c’è ancora molto da lavorare. Qualche volta volgo lo sguardo indietro, e in particolare alle cose che ho fatto, e sono molto contento. Sono stato fortunato ad avere dei genitori che mi incoraggiano giorno dopo giorno, e mi affiancano in questo lungo percorso di vita. Un’altra fortuna è stata la possibilità di suonare in orchestra fin da quando avevo otto anni, l’Orchestra Suzuki di Torino, con la quale ho imparato tante cose tra cui suonare insieme, il rispetto, l’arte dell’arrangiarsi, l’educazione. E’ stato questo il mio primo vero successo nella vita, suonare insieme e divertirsi con gli amici, e tutto nel nome della musica.

Le tournèe sono state molte con l’Orchestra Suzuki. La prima in Svizzera, a Ginevra, e molte altre in tutta Italia (Levanto, Ischia, Roma, Padova, e molte altre città che ora non ricordo). Sicuramente la più memorabile è stata quella in Thailandia nel giugno 2002.  Fu organizzata dall’ambasciata italiana a Bangkok, durò una settimana, e fu un’esperienza indimenticabile per tutti i componenti dell’orchestra. La tournèe aveva come scopo principale il combattere lo sfruttamento minorile nel sud-est asiatico, quindi portare la musica a bambini che non ce l’hanno, mostrare una via diversa alla prostituzione minorile, al lavoro forzato per pochi soldi. Una realtà drammatica che purtroppo continua a fare vittime ai giorni nostri.

Suonammo nella grande Sala Congressi dell’ONU, alla presenza della Principessa della Thailandia, e fui incaricato di porgerle i doni da parte della nostra orchestra.

Gli aneddoti sono infiniti, i momenti di vita passati in questa orchestra rimangono indelebili. Come tutti i ragazzini, quando si è in molti in camera da letto , si fa di tutto, tranne che dormire. Giocare a carte fino alle 5 del mattino, battaglie di cuscini, improvvisare partite di calcio con i calzini arrotolati, parlare del più e del meno, ridere, scherzare. E il giorno dopo, tutti cadaveri a suonare e studiare insieme, ma ne è sempre valsa la pena.

L’aneddoto che mi viene in mente ora risale a non molti anni fa, erano  i miei ultimi anni nell’orchestra Suzuki. Facevamo il corso estivo a Piverone, a settembre, e una delle tante notti passate a non dormire, io e i ragazzi più grandi dell’orchestra siamo stati scoperti dal nostro direttore Antonio Mosca, e come castigo ci ha presi tutti e ci ha caricati sul suo furgone: ci ha portato al lago di Viverone a fare il bagno… alle 3 del mattino, e senza costume e asciugamani. Il giorno dopo, tutti raffreddati, ma con il sorriso di sempre.

Ho conosciuto tanti personaggi del mondo della musica. Il primo che ho conosciuto è stato il violoncellista Mario Brunello, con il quale suonammo con l’orchestra Suzuki, ormai tanti anni fa. La lista è lunga, ho suonato molte volte con il violoncellista Umberto Clerici, ricordo un concerto memorabile con Salvatore Accardo al Lingotto a Torino durante la Convention Suzuki del 2006, Gianandrea Noseda, il mio attuale insegnante Pavel Berman, Viktoria Mullova, Giuliano Carmignola (dal quale sono stato invitato nel suo camerino, e si è parlato di molte cose belle), Daniel Barenboim (ma non ho potuto incontrarlo dopo il concerto), molti musicisti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai di Torino ( tra cui Roberto Ranfaldi, I violino di spalla dell’orchestra), Francesco Tamiati (mio concittadino e amico di famiglia, nonché prima tromba all’Orchestra del Teatro alla Scala di Milano), “il baritono di  Toscanini” Giuseppe Valdengo, un incontro brevissimo con Bruno Canino, Mischa Maisky e sua figlia Lily Maisky.

Tutti questi incontri sono stati fonte di ispirazione per me, modelli dai quali imparare molto.

Bella domanda. Circa 8 anni fa mi ero posto la domanda su cosa avrei preferito suonare, e devo essere sincero, avevo puntato tutto sull’organo. Il violino non mi dava soddisfazioni grandi come l’organo, sarà un problema di DNA? Ma tutto cambiò quando nel 2010 mi è stato fatto dono da parte di un medico, Dott. Ermanno Silano, di un magnifico violino. E lì è stato colpo di fulmine, è un pezzo di me, una parte del mio cuore. La venuta di questo strumento nelle mie mani è stato come un incoraggiamento, e tutto si è ribaltato, il violino è passato in primo piano su tutto. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che un musicista deve essere il più completo possibile, non bisogna approfondire solo un lato della musica, ma è utile arricchirsi il più possibile. Ho il grande esempio di mio padre, il quale ha conseguito ben otto diplomi di conservatorio, un record qui in Italia, non per il fatto che volesse essere esibizionista o un collezionista di diplomi, ma perché era ed è animato da una curiosità sfrenata della musica e soprattutto da un senso di incompletezza che lo turba quotidianamente, ogni giorno si imparano nuove cose. E questo atteggiamento me l’ha trasmesso interamente, ecco spiegato perché mi sono affacciato a più discipline nel mio percorso: il violino, la batteria e l’esperienza nella banda della mia città Santhià, la composizione e il pianoforte fin da quando avevo otto anni, l’organo, la direzione d’orchestra. Il mio obbiettivo principale è diventare un musicista il più completo possibile, animato da un forte senso di curiosità ed entusiasmo nei confronti della musica, sempre con grande umiltà e rispetto della scelta vocativa fatta.

I sogni nel cassetto sono tanti e vari. Credo che il sogno più grande sia quello di raggiungere i grandi traguardi di un musicista, suonare nelle grandi sale da concerto, dirigere e suonare con orchestre importanti. Ma questo è un punto di arrivo ancora molto lontano, c’è ancora bisogno di lavorare sotto molti aspetti e c’è anche bisogno di imparare tante cose, è ancora troppo presto per pensare a queste cose. Per ora continuo a camminare in questo splendido percorso che mi accompagna da molti anni, continuo a studiare e ad imparare l’arte della musica, sempre con entusiasmo, grinta e umiltà, ingredienti a mio avviso fondamentali per un musicista.

 

a febbraio 2014

ALDO  BAROSSO

ALDO BAROSSO
Aldo Barosso

 

Ciao Aldo, grazie per averci concesso questa intervista.

  • ·Cominciamo dall’infanzia: tu nasci a Vercelli frequenti il Liceo Scientifico e consegui la laurea in Informatica.
  • ·Ricordi qual è stato il tuo primo approccio con la musica?+Un vecchio pianoforte che suonava mia mamma tanti tanti anni fa, c’è ancora, un po’ scordato, nel soggiorno.
  • ·C’è stato un avvenimento o una persona che ti hanno fatto decidere di dedicarti alla musica?

Sinceramente no, non è una cosa che ho deciso o che ho intrapreso sulle orme di qualcuno. Credo mi abbia affascinato fin da subito la possibilità di raccontare qualcosa mescolando poesia e musica.

  • ·Che ruolo ha la musica nella tua crescita umana?

Non ha un ruolo particolare, è uno dei tanti tasselli che compone il mosaico di quello che sono, così come tanti libri, conversazioni, film… E’ uno dei mezzi con cui mi piace esprimermi.

  • ·Tu nasci come cantautore; quando decidi di coniugare la musica alla scrittura?

Nasco come cantautore perché dopo aver suonato per tanti anni in pubblico è stato naturale espormi sotto questa veste. Prima era una cosa più personale e spaziava tra le più disparte forme di espressione, le prime righe probabilmente sono state semplici poesie, le prime composizioni, se così si può chiamarle, sono antecedenti di una decina di anni rispetto al primo disco. Non c’è in me una reale distinzione tra un’arte e l’altra, diciamo che ha iniziato a piacermi l’idea di creare qualcosa di più completo e complesso di un semplice disco o di un libro. Quindi è narrazione, è musica… ma è anche teatro, è anche danza. Non vorrei raccontare troppo delle novità in preparazione ma quello che avete letto e ascoltato fino ad ora è solo la punta dell’iceberg di “Nel mare e nel cielo”.

  • ·Tre parole: amore, musica e mare. Cosa rappresentano per te?

Sono parole che mi stimolano poco, diciamo che sono abusate per chiamare poesia qualsiasi sciocchezza, stanno tra i Baci Perugina e il “solecuoreamore” della nota canzone. Concettualmente sono parole che muovono tutto quello su cui mi piace scrivere, accompagnate dalle parole e dalle persone giuste rappresentano quello che per me è la felicità.

  • ·Ne “I silenzi e le parole” il tuo secondo romanzo hai scritto: “E’ così effimero quello che inseguiamo, ma tra le stelle si possono davvero ritrovare  i nostri ricordi e scrivere le nostre speranze“. Quanto c’è di effimero in “Nel mare e nel cielo”, il tuo ultimo lavoro, uscito proprio in questi giorni?

È effimero tutto ciò che è contenitore più che contenuto, sono effimeri i diamanti e la loro bellezza incastonata in un anello senza la mano che è destinata a portarlo. Su di un trono di inutili ricchezze arriva anche la consapevolezza di aver perso qualcosa che nessuna moneta al mondo può comprare. Così nulla di quello che è apparenza ed egoismo può più dissetare il marinaio che si è perso nella sua odissea, ma solo ora è pronto ad affrontare i propri limiti, le proprie incertezze e, se prima viaggiare era l’effimero desiderio di sentirsi libero, diventa il mezzo per raggiungere quello che è realmente importante.

  • ·Parlaci un po’ di questo romanzo.

Questo nuovo romanzo racconta di un viaggio, racconta di posti che ho vissuto ma dipinti con i colori di un’altra epoca. Un’odissea tra le taverne dei porti e il mare, quando i vascelli affrontavano infiniti viaggi cercando di scoprire un pezzetto di più del nostro mondo. Le coste dell’Africa con i cercatori d’oro e di diamanti, l’impresa di doppiare Capo di Buona Speranza, i limiti del mondo moderno visti come nella cultura ellenica venivano descritte le Colonne d’Ercole. I personaggi sono persone comuni, con i loro pregi e i loro difetti, un lungo viaggio li porterà a superare le apparenze e i propri limiti.

  • ·Quanto c’è di Aldo nel personaggio del Marinaio?

Ogni personaggio ha dentro qualcosa di me, ogni racconto è un po’ di fantasia e in parte una parafrasi della realtà, nessun personaggio in particolare mi rappresenta. Nel marinaio ci sono il mio amore per il mare, per il viaggio e per le mete impossibili.

  • ·Tu preferisci essere musicista scrittore o scrittore musicista?

Questa domanda mi fa ripensare a quando ero più piccolo, diciamo ai primi anni delle superiori. Mi ero messo la televisione in camera e, contrariamente ad adesso, potevo anche dormire pochissimo che il giorno dopo ero pieno di energie. Questo si è tradotto nel seguire le più disparate trasmissioni notturne, ma una su tutte mi piaceva per la buonanotte, si chiamava Sottovoce e il buon Marzullo inchiodava i suoi ospiti con giochi di parole così. Ah! Finalmente a noi due Gigi! Orbene, tornando seri, adoro scrivere allo stesso modo in cui mi piace comporre, la musica richiede più energie e lavoro ma ha un impatto più semplice e intenso. Penso che nei miei lavori la narrazione sia lo sfondo che dona maggior forza alla musica che metto al centro del quadro. Mi piacciano entrambe le definizioni, se devo sceglierne una: musicista scrittore.

Grazie Aldo per la tua gentile disponibilità e non possiamo che augurarti una brillante carriera sia come musicista sia come scrittore.

Grazie mille a voi!

a Gennaio 2014

ANGELO BERNI

al Centro Angelo Berni
al centro Angelo Berni durante una mostra

 

  • Ciao Angelo, grazie per avermi concesso questa intervista.
  • Grazie a voi della “Voce” che mi avete dato questa opportunità
  • Tu sei un santhiatese d.o.c., nato e cresciuto a Santhià e sei conosciutissimo perché per tanti anni hai lavorato come parrucchiere. Poi, lasciata l’attività, ti sei ‘inventato’ questo passatempo che è diventata una vera produzione artistica. Ce ne vuoi parlare?
  • Tutto è cominciato per gioco. Qualche anno fa’ mio cugino mi chiese di vestirgli una bambola che gli avevano regalato. In un primo tempo gli risposi di no. Effettivamente non sapevo da che parte cominciare, ma poiché insisteva, mi convinsi ad accettare questa ‘sfida’. Sono partito da quello che mi veniva più facile, cioè l’acconciatura, e poi, ho iniziato a confezionare l’abito ed è stato più facile di quanto immaginassi. Mi sono divertito e ne ho vestita un’altra e poi un’altra e tante altre dopo quella, perfezionando la tecnica e arricchendo sempre di più gli abiti.
  • Quante bambole hai vestito finora?
  • 341
  • Un bel numero! Dove trovi l’ispirazione per creare questi abiti così accurati nei minimi dettagli e tutti diversi l’uno dall’altro?
  • La fantasia gioca un ruolo fondamentale, ma mi documento anche sulle fogge, le acconciature, i gioielli indossati dalle dame e dai cavalieri nelle epoche passate. Sono tutti dettagli che non posso assolutamente trascurare affinché le mie creazioni siano il più fedeli possibile ai costumi originali dal Medio Evo all’800.
  • Qual è il periodo storico che più ti affascina?
  • Il Rinascimento, senza dubbio. Sono costumi più sobri, talvolta austeri, di quelli sfarzosi del ‘600, ma la loro ricchezza sta nei broccati e nei fili d’oro usati.
  • Hai ‘immortalato’ tante regine, relativi consorti e cortigiane da Maria Antonietta all’imperatrice Sissi, passando per Elisabetta d’Inghilterra a Josephine e Napoleone. In quale di queste corti ti sarebbe piaciuto vivere?
  • Alla corte dei Gonzaga di Mantova.
  • Non vogliamo che si sveli i tuoi segreti di artista, ma ci puoi dire in breve, come confezioni un abito?
  • Inizio da una gabbia in fil di ferro, la crinolina, che rivesto di tessuto e su questa base costruisco l’abito che intendo fare; prima la gonna e poi il corpetto che è incollato al corpo della bambola. Quindi passo all’acconciatura e agli accessori,ai gioielli ecc.
  • Quanto tempo impieghi a vestire una bambola?
  • Dipende dal tipo di modello. Per un abito in stile ‘700, possono volerci diversi giorni; le perline devono essere cucite una per una, magari creando un disegno che si ripete anche sul mantello; oppure i volants devono essere rifiniti con diversi tipi di passamanerie. Sono tante le variabili. Un abito stile impero richiede ovviamente meno tempo. Per le acconciature in genere ci vuole molta pazienza ed abilità perché trattare i capelli di plastica è molto più complicato che lavorare sui capelli naturali.
  • Le tue mostre riscuotono sempre un grande, ed aggiungerei meritatissimo, successo. Forse perché le tue bambole fanno sognare?
  • Penso proprio di sì. E non solo le bambine. Viviamo in un’epoca frenetica e tecnologica, dove c’è poco spazio per far volare la fantasia.
  • Un’ultima domanda: tra tutte le 341 bambole ce n’è una a cui sei particolarmente legato?
  • Sì, ovviamente. E’ una delle prime che ho vestito a cui sono particolarmente affezionato per motivi personali che non ho alcuna intenzione di svelare.
  • Allora non mi resta che augurarti un grosso in bocca al lupo per la mostra.